L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

roberta mantegna

Eroiche e brigantesche passioni

 di Stefano Ceccarelli

L’Opera di Roma mette in scena I masnadieri di Giuseppe Verdi, ritornando al ‘primo’ Verdi dopo le belle produzioni di Riccardo Muti, nel suo glorioso periodo stabile al Costanzi. Purtroppo, l’odierna mise en scène presenta non pochi punti deboli: la regia di Massimo Popolizio, innanzitutto, statica e astenica; un cast ineguale per talento e prestazioni; una direzione, quella di Roberto Abbado, che se pure ci fa godere bei momenti, è debole in intensità in più di un momento. Gli applausi finali, conseguentemente, giungono cortesi ma poco convinti.

ROMA, 31 gennaio 2018 – Assistere a una mise en scène de I masnadieri verdiani è cosa alquanto rara: si tratta di un’opera che non ha mai conosciuto una vera e propria fama. L’annuncio, dunque, del titolo nella corrente stagione del Costanzi ha certo meritato il plauso della direzione artistica. Si tratta anche di un nuovo allestimento, con maestranze provenienti dalla “Fabbrica” del Teatro dell’Opera stesso (la Mantegna). Il nome, poi, di Massimo Popolizio alla regia incuriosisce non poco, lui che – allievo di Luca Ronconi – non ha però mai praticato la regia lirica. La direzione di Roberto Abbado, che del primo Verdi ha affrontato già diverse opere (Attila, I lombardi, Ernani) e che s’è sempre distinto per la versatilità del suo repertorio, prometteva altrettanto bene, almeno sulla carta.

Ma cos’è, dunque, successo in sala perché l’opera sia stata accolta con garbata freddezza dal pubblico e – spiace dirlo – sia risultata a tratti persino noiosa? Il problema principale penso sia da ravvisare nella regia di Popolizio, che s’è inerpicato su un’idea a suo dire ‘fumettistica’ di gestione delle scene, con chiare reminiscenze dal Trono di spade e dal cinema di Tim Burton. Ma il risultato è una regia statica, priva di idee reali e convincenti, basata su un movimento meccanico dei personaggi (che nelle dichiarate intenzioni di Popolizio doveva servire da scansione geometrica della prossemica dei ruoli), assai poco naturale e ‘epico’ – epico come dovrebbe essere l’elemento romantico di cui un’opera come I masnadieri s’informa musicalmente. Si dia anche che il libretto approntato da Andrea Maffei non sia certo dei migliori, con scene sforzate e drammaturgicamente ‘brachilogiche’, vista la difficoltà di condensare e digerire Die Räuber di Friedrich Schiller – il finale, che raggiunge punte di notevole assurdità, ne è un ottimo esempio. Insomma, una regia buona di un’opera del genere dovrebbe avere determinate caratteristiche: rendere la storia il più intelligibile possibile (il pubblico ha una conoscenza minima o nulla di un titolo come I masnadieri), movimentare e vivacizzare la vicenda e, soprattutto, far trasparire quel senso di sclerotico e quasi schizofrenico eroismo e senso dell’onore che è alla base dell’opera (come pure dell’Ernani, due titoli che possono apparire ‘strani’ alla nostra mentalità) e che incarnava una chimera ideale, una proiezione teatrale dell’uomo di metà ‘800 immerso in repentini, fulminei rivolgimenti politici. Popolizio si preoccupa poco di rendere questi elementi palpabili e presenti nella sua regia, inviluppandosi in un’idea melmosa, arenata su movimenti preordinati (personaggi che salgono e scendono scale e oggetti scenici senza apparente e cogente motivo), su scene insistentemente violente (stupri, saccheggi ecc.) che però non sortiscono l’effetto voluto. L’esempio, poi, dell’assurdità di alcune scene è di per sé esplicativo: il momento in cui Francesco tenta di far violenza a Amalia sulla presunta tomba del padre di lui è talmente mal riuscito (per recitazione, postura e movimenti dei personaggi) da risultare quasi grottesco. In ogni caso, non spiace qualche tableau isolato, ben simmetrico (come la scena del salvataggio di Massimiliano nel III atto): ma, appunto, si tratta di momenti isolati.

Le scene di Sergio Tramonti non spiacciono, soprattutto per le cromature: sono, però, di un minimalismo estremo, ma il sapiente uso delle luci (Roberto Venturi) sa valorizzarle. Assai meno, invece, l’uso del proiettore, che specifica in maniera naïf elementi accessori dell’azione, secondo quest’estetica del fumetto alla base dell’idea di Popolizio. I costumi di Silvia Aymonino, invece, sono assai piacevoli: appaiono curati e ricchi (quello di Francesco e di Massimiliano, in particolare; oltre che i cambi d’abito di Amelia), dando un tocco di medioevo ‘post-apocalittico’ molto à la page nell’imagerie operistica corrente, che molto si ispira a serie televisive e al grande schermo. Insomma: se la regia annoia non poco, la parte specificamente scenografica avrebbe meritato ben altre sollecitazioni registiche per esprimere il suo potenziale. La foresta rappresentata con tronchi che pendono dal soffitto fa un discreto effetto; come pure quando, calando, i tronchi danno l’effetto di una foresta ‘sospesa’, l’ambientazione selvaggia del III atto.

Ma non pochi problemi m’è parsa aver avuto anche la direzione d’orchestra. Roberto Abbado, infatti, si assesta su un’agogica a tratti strascicata, volutamente indugiante, analitica, che non giova ai momenti pittorici, alle pennellate nette e larghe che Verdi ha pensato per i momenti di transizione, quelli che introducono all’atmosfera, come i vari preludi. Lungi dal conferire quell’energia intimamente necessaria a molti punti dell’opera, Abbado si abbandona ai momenti più lirici (arie e duetti), che cura con attenzione, avendo però spesso risultati altalenanti dagli interpreti. In sostanza, non mi pare aver risolto compiutamente la partitura nella sua Stimmung, come pure in alcuni suoi particolari: ma, soprattutto, non sembra aver avuto un feeling ‘liquido’ con il palco. Il che è un peccato: una serata no, in fin dei conti, ci può stare. Ma l’orchestra e il coro hanno fatto una buona performance: il problema, quindi, penso sia piuttosto l’approccio di Abbado alla partitura dell’opera, troppo poco energico, poco attento a molti passaggi che avrebbero necessitato di mano più decisa. Un merito indiscusso a Abbado va certamente tributato, però: è un musicista assai raffinato, versatissimo nel repertorio operistico, facendo dunque cantare le voci con maestria e sorreggendole adeguatamente.

Un cast di talento assai ineguale, purtroppo, ha decretato una serata vocalmente mediocre. Il Massimiliano di Riccardo Zanellato riesce, invero, centrato e senile: Zanellato ha una morbida scurezza di timbro e una voce non profonda né potente, ma adatta al ruolo. Uno dei pochi applausi del pubblico giunge infatti dopo il suo duetto con Carlo nel IV atto («Come il bacio d’un padre amoroso») e, in generale, riesce a scontornare bene il ruolo. Stefano Secco canta un mediocre Carlo: la sua voce, granulosa e a tratti non sorretta da adeguato volume, non riesce eseguire una parte che necessita di uno squillo e di una facilità d’emissione fulminee e vibranti. La dimostrazione l’abbiamo già nell’aria di sortita, «O mio castel paterno». Ma l’errore, fatale, arriva nel voler strafare: il sovracuto finale della cabaletta, che da prassi dell’epoca verdiana dovrebbe essere sulla dominante (la nota precedente l’ultima), viene sparato sulla tonica, con risultato pessimo, un suono stridulo e quasi impercettibile, sopra il tripudio dell’orchestra. In generale, tutta la performance è assai sottotono. Rari i momenti gradevoli: il cantabile del duetto con Amalia (III), «Ma un’iri di pace fugò le tempeste», soffuso come da tradizione e prassi, qualche momento dell’aria finale del II atto («Come splendido e grande il sol tramonta!»), e poco altro. Pur essendo previsto Artur Ruciński nel ruolo di Francesco, per una sua indisposizione lo sostituisce Giuseppe Altomare, del secondo cast. Malgrado sia palesemente non in condizioni ottimali e avendo commesso qualche evidente errore (nel cantabile della sua prima aria salta quasi un’intera frase musicale), Altomare mette una voce non potente, ma morbida e educata, verdiana in senso puramente baritonale, al servizio di un ruolo luciferino, quant’altri mai in Verdi, e ci regala qualche bel momento: l’attacco del duetto con Amalia (II) e l’aria del sogno (IV: «Pareami, che sorto da lauto convito»), sorella di quella celebre dell’Attila e di molte scene di follia tipicamente primo-ottocentesche. L’Amalia di Roberta Mantegna, soprano emergente, catalizza certamente le attenzioni di pubblico e critica: pur avendo amplissimi margini di miglioramento, la Mantegna, forte di una tecnica perfezionabile (negli acuti, ad esempio) ma già abbastanza solida, ci regala un’Amalia vocalmente convincente, appassionata e virginea, nel rispetto dell’ethos del personaggio. Oltre ai duetti, tutti ben cantati, mi piace ricordare le sue arie, come la cavatina «Lo sguardo avea degli angeli» (I) e «Tu del mio Carlo al seno» (II), con una spumeggiante esecuzione della cabaletta. Meritati gli applausi finali. I comprimari cantano dignitosamente: Saverio Fiore (Arminio), Dario Russo (Moser, che si fa annunciare indisposto) e Pietro Picone (Rolla).

Una produzione, dunque, di qualità discontinua. Un vero peccato, aggiungerei. Forse qualche abbonato d’annata avrà probabilmente rimpianto la bella produzione del ’72, che vedeva, oltre a Gavazzeni sul podio, la Ligabue, Gianni Raimondi, Bruson e Christoff sul palco: della quale produzione rimane, fortunatamente per noi posteri, una bella registrazione.

foto Yasuko Kageyama


 

 

 
 
 

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