Regie e non regie

 di Stefano Ceccarelli

L’Opera di Roma mette in scena, nuovamente unite come da tradizione, Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni e Pagliacci di Ruggero Leoncavallo. La regia di Pippo Delbono non piace al pubblico e solleva non poche polemiche: spoglia e funerea, non rende giustizia ai due capolavori del verismo italiano. La bacchetta di Carlo Rizzi, fortunatamente, salva musicalmente la serata, non particolarmente felice neanche per quanto riguarda il cast dei cantanti.

ROMA, 12 aprile 2018 – Talvolta alcune serate di teatro rimangono in mente più di altre, non necessariamente perché belle. È questo il caso della presente produzione aprilina del classico dittico di Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni e di Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, sovente coniugate assieme anche per questioni di durata (la prima in un atto unico, la seconda in due brevi atti e un prologo), al Teatro dell’Opera di Roma. L’ultima Cavalleria risale alla stagione estiva di Caracalla del 2013; gli ultimi Pagliacci sono quelli di Zeffirelli del 2009.

A mia memoria (e sono anni che non perdo una produzione al Costanzi), non ho mai sentito buare tanto forte alla fine di una mise en scène ai danni di un regista. Protagonista di questa sfortunata performance è Pippo Delbono, che sta facendo non poco parlare di sé proprio in relazione a questa contestata messinscena dei due capolavori veristi. Delbono vanta un curriculum incredibile: ha lavorato con la Bausch e ha sperimentato notevolmente nel teatro di prosa, producendo e firmando moltissimi spettacoli, che hanno fatto il giro del mondo. Recentemente, si sta aprendo anche al teatro lirico, con titoli di punta come Don Giovanni, Cavalleria rusticana e Madama Butterfly. Cos’è successo, quindi, al Costanzi per scatenare un tale caso nei riguardi di Delbono? La risposta è semplice: le due messinscene non funzionano affatto. Delbono vuole usare un linguaggio sì sperimentale (e non sarebbe il primo a farloa), ma totalmente inadatto all’opera lirica per come fu concepita, strutturata e per come comunemente si fruisce.

Insomma, Delbono mette in scena una sua opera, più che quella di Mascagni, di cui si serve della musica e delle voci. Ma, soprattutto, è sempre presente in scena: cosa che non capita quasi mai nel teatro d’opera, dove il regista, appunto, dovrebbe lasciar parlare il testo che mette in scena. L’approccio di Delbono, invece, è d’urto, direi: tanto che è stata ‘urtata’ non poco la sensibilità del pubblico, che ha reagito con astio, senza per esempio apprezzare qualche bel momento pur presente nell’idea di Delbono e, addirittura, applaudendo, seppur timidamente, ma applaudendo interpreti che, francamente, poco lo meritavano. Ma, si sa, in teatro il pubblico è sovrano: e, come diceva Aristofane, volubile.

Prima dell’inizio di Cavalleria rusticana, Delbono entra in scena recitando un monologo: racconta della morte della madre, di come abbia sublimato in Cavalleria proprio questo lutto importante della sua vita e di come sia solito lavorare con attori non convenzionali (emarginati, clochards ecc.). Viene gentilmente applaudito e incomincia l’opera. Dopo poco lo ritroviamo in scena, entra e esce in continuazione, come elemento volutamente disturbante e iperrealistico: danza muovendo le mani come fosse un uccello; apre e chiude porte; lancia fiori rossi durante i cori pasquali. La sua presenza crea non pochi brusii fra il pubblico. Il primo elemento che non funziona assolutamente, dunque, della sua regia è la sua onnipresente, quasi narcisistica presenza, che diventa più che perturbante e, soprattutto, distrae tantissimo dalla visione dell’opera. Ingenuità registiche, poi, si affastellano (e succederà anche nei Pagliacci): l’entrata e l’uscita di Lola, ad esempio, ma soprattutto la massa corale, che è sempre statica, immobile. Così pure i personaggi: l’aria di Alfio è fra le più noiose versioni che ricordi. Le scene, del resto, non aiutano: una stanza che è un luogo della memoria irreale, purtroppo, non funziona per un’opera come Cavalleria, cui non si può togliere un colore specifico come quello siciliano, vagamente alluso da Delbono solo nei costumi, funerei. Peraltro, quest’unica stanza si sarebbe potuta sfruttar meglio: l’apertura in fondo, per esempio, poteva essere usata di più e con maggior profitto, magari dando qualche colore siciliano, alternando la luce alla cupezza perenne e funerea di cui si ammanta la sua idea dell’opera. Un fuoco al centro, poi, è il simbolo dell’ultimo falò di paese visto con la madre. Insomma, Delbono si incastra in una ritualità fissa e scopertamente simbolica, mostrando pochissime scene interessanti: la processione e il rito pasquale, con Bobò a reggere la croce (il fido Bobò di Delbono, che sempre lo accompagna in scena); la scena finale che si tinge di un rosso sangue che invade il palco. Questa la regia già andata in scena al San Carlo di Napoli nel 2012.

A questa messa in scena azzardata e inadatta si oppone, invece, una buona performance dei complessi dell’orchestra, sotto la direzione di Carlo Rizzi, che vivacizza proprio quel colore sacrificato da Delbono, creando, non volendolo, una curiosa discrasia. Il coro esegue dignitosamente, ma avrebbe potuto far meglio, specie in alcuni momenti. Il cast dei cantanti è di diseguale valore. Ottime le voci femminili; problematiche le maschili. La Santuzza di Anita Rachvelischvili, mezzosoprano dalla voce potente soprattutto nella zona centrale, ci regala momenti notevoli, in cui riesce a piegare la voce a sfumature pregne del dolore della protagonista, un dolore che scaturisce da affetti traditi: così, risulta commovente il suo «Voi lo sapete, o mamma», come pure il suo duetto con Turiddu; accenti più accesi tira fuori nel duetto con Alfio, dove trasuda vocalmente l’idra della gelosia (come direbbe Shakespeare). Ma, soprattutto, si lascia apprezzare nella sua parte nel «Regina coeli», la parte più applaudita dell’opera. La Lucia di Anna Malavasi è semplicemente straordinaria: una voce tripudiante, pastosa, potente, dai colori scuri, le permette di delibare tutte le corde degli affetti della madre di Turiddu. La Lola di Martina Belli è incredibile: oltre a vantare una voce sonora e squillante, che ci regala uno stornello piacevolissimo, la sua presenza scenica la rende perfetta per il ruolo. I problemi – dicevo – vengono con le voci maschili. Alfred Kim ha anche la potenza vocale per cantare Turiddu, ma è totalmente sprovvisto del giusto fraseggio, delle sfumature, di talune delicatezze essenziali: insomma, non sente il personaggio. Problemi d’intonazione e pronuncia italiana, peraltro, si palesano già nella stupenda siciliana retroscenica («O Lola ch’hai di latti la cammisa»), forse la più bella cosa scritta da Mascagni; continuano nel duetto con Santuzza e culminano nella sua ballata («Viva il vino spumeggiante») e nella successiva aria («Mamma, quel vino è generoso»), totalmente prive di fraseggio appropriato. L’Alfio di Kiril Manolov è totalmente diafano: il timbro della voce, peraltro, non è neppure male; il problema è in tutto il resto.

I Pagliacci sono pensati e strutturati come secondo tempo dell’idea registica di Cavalleria. Stessa ambientazione, stessa immobilità di fondo. Eppure, questa messinscena riesce meglio della prima: qualche scena è veramente pregevole, come quella della ballata di Nedda, dove partecipano Bobò e Gianluca in un divertente siparietto; o quella di Nedda e Silvio, nel loro duetto d’amore. I figuranti fanno un discreto lavoro; il coro è meglio gestito. Il problema sono, invece, i cantanti. Manolov, dopo aver palesato problemi in Alfio, continua a palesarne anche in Tonio, fin dal suo ruolo di prologante («Poiché in scena ancor le antiche maschere»). Il Canio di Diego Cavazzin è diafano scenicamente e vocalmente, appoggiandosi a triti cliché incrostati nel personaggio per tradizione. Ma, soprattutto, la sua voce non arriva molto in là rispetto al palco: le sue arie, dunque, ne sono fortemente penalizzate, specialmente la celeberrima «Vesti la giubba e la faccia infarina», che viene comunque – con mio stupore – applaudita. Di contro, il Beppe di Matteo Falcier ha molta più voce, creando il paradosso per cui la serenata di Arlecchino supera in potenza l’aria del pagliaccio. Dionisios Sourbis canta un buon Silvio: ha voce ben impastata, sonora, dal timbro mellifluo, con ampi margini di miglioramento. Carmela Remigio nel ruolo di Nedda è certamente la miglior cantante del cast di Pagliacci; eppure, la sua voce non è molto potente, né particolarmente centrata, almeno nella recita cui ho assistito. Però ha il physique du rôle perfetto, la giusta recitazione; la sua bellissima ballata, inoltre, è letta con trasporto e passione. La direzione di Rizzi si conferma ottima anche nel capolavoro di Leoncavallo e l’orchestra risponde assai bene.

Complessivamente, cantanti, coro e comparse prendono i loro applausi finali; appena, però, Delbono entra in scena, i fischi si fanno rumorosi. Il pubblico manifesta il suo insindacabile giudizio, che in questo caso mi trova d’accordo.

foto Yasuko Kageyama