Scala, Donizetti ex cathedra

 di Francesco Lora

Nuovo allestimento del Don Pasquale a Milano, con la lettura scenica in ordine colossale firmata da Livermore, Forma e Falaschi. Di assoluto riferimento stilistico la direzione di Chailly, pur nell’assecondare qualche necessità dei cantanti: Maestri, Feola, Barbera, Olivieri.

MILANO, 28 aprile 2018 – Nei libretti d’opera del genere buffo la specificazione della città ove si svolge l’azione è spesso tanto precisa quanto inutile. Si pensi a Bologna nel Matrimonio segreto di Bertati/Cimarosa o a Parigi nella Scala di seta di Foppa/Rossini; o ancora a Napoli in Così fan tutte di Da Ponte / Mozart, funzionale soprattutto a un malizioso gioco di parole, ché nuova città era anche quella di Neustadt presso Vienna, ove pare fosse avvenuto davvero uno scambio di coppia: in tutti i casi si agisce non più che tra palazzo e giardino, senza che il contesto cittadino abbia vera influenza, se non per suggerire allo scenografo paesaggi utili ai fondali; modello di economia rimane così La Cecchina di Goldoni/Piccinni, ambientata nell’immaginario feudo del marchese della Conchiglia. Il caso si ripropone nel Don Pasquale di Ruffini-Donizetti/Donizetti: il libretto stabilisce che «l’azione si finge a Roma», ma la capitale pontificia è poi menzionata, di sfuggita, nella sola patetica lettera di Ernesto; ciò che più conta, anche qui si agisce non più che tra palazzo e giardino, nel gioco borghese a quattro soli personaggi effettivi, tale da far parere quasi fuori luogo l’irruzione del coro. Un limite troppo angusto per lo spazio sterminato e la sterminata allure del Teatro alla Scala: in proporzione con la committenza e alle prese col capolavoro donizettiano, il regista Davide Livermore, lo scenografo Giò Forma e il costumista Gianluca Falaschi hanno concepito un nuovo allestimento dilatato fino all’ordine colossale. V’è il palazzo e v’è il giardino, ma in più si scorrazza da Cinecittà alla stazione Termini, si sorvola piazza S. Pietro, si sta acquattati nottetempo tra pini marittimi e rovine imperiali; un folto esercito di figuranti fa corteggio ai personaggi, la capricciosa galleria d’abiti anni Cinquanta fa sensazione, persino la defunta e invadente madre del protagonista – causa presunta del suo irrisolto celibato – va a materializzarsi, ora rabbiosa ora fremente ora invidiosa ora trionfante, dal ritratto nel salone. Horror vacui? Sì, ma con un ritmo teatrale fibrillante e non secondo allo sfoggio di strapotere istituzionale.

Nelle nove recite dal 3 aprile al 4 maggio, la grandiosa macchina registica sembra tuttavia intimidire pian piano una lettura musicale iniziata con pari estroversione. Occorreva un Riccardo Chailly per ribadire ex cathedra il valore retorico e timbrico nella fraseologia e nella strumentazione donizettiane: una Sinfonia più fastosamente assertiva e più melodicamente duttile non si era forse mai prima ascoltata; certi interventi di clarinetto e corno richiamano l’orecchio sull’orchestra e lì lo lasciano come paralizzato; spiace invero – tanto più in croccante associazione a un allestimento scenico kolossal – che non si sia potuto attuare un desiderio tardivo del direttore: quello di eseguire per la prima volta le molte battute stralciate dall’autore per amor di brevità, benché nell’autografo esse si trovino orchestrate e apprezzabili sotto le cancellature. Con l’inoltrarsi dell’opera, nondimeno, a Chailly tocca viepiù distogliere l’attenzione maniacale alla partitura per assecondare qualche necessità dei cantanti: una compagnia che non si sa se più lodare per la millimetrica preparazione o se più pungolare per la brigosa aderenza alle parti. Ambrogio Maestri, per esempio, non vanta la disinvoltura da molti attesa come Don Pasquale: il vocabolario attoriale è ripreso, senza troppi grattacapi, da Sir John Falstaff e Gianni Schicchi; attira così abbondante simpatia ma insieme si esenta da scrupoli belcantistici; né ad aiutare un baritono dedito alle elevate tessiture verdiane può essere una scrittura vocale affondata fino al Fa grave. Misura, impegno, eleganza, esattezza e meraviglia connotano invece Rosa Feola, per una Norina insolitamente rotonda nel registro centrale, più memore della cordiale commedia di Mozart e Rossini che della parentela virtuosistica con le eroine di Donizetti e Bellini. Nel Dottor Malatesta di Mattia Olivieri convivono un attore di consumata spigliatezza e un vocalista ancora in attesa della propria estate; nell’Ernesto di René Barbera l’esitazione scenica è invece estrema, ma notevole è la pratica del registro misto nei cieli del pentagramma. Superbo il cammeo mimico nel Notaro di Andrea Porta.