Schubert, modesta intenzione

 di Francesco Lora

Primo allestimento del Fierrabras al Teatro alla Scala: se la parte scenica proviene dal Festival di Salisburgo, con qualche problema di riadattamento al nuovo spazio, quella musicale trova poco adeguati sia il direttore Harding sia buona parte dei cantanti, a distinzione delle tre signore e del vivido Werba.

MILANO, 15 giugno 2018 – Una storia di figlie-principesse che s’innamorano di pretendenti sgraditi ai rispettivi padri-re, il prode moro eponimo che sublima l’amore non corrisposto convertendosi al Cristianesimo, un libretto nato obsoleto nel soggetto e scalcinatissimo dal punto di vista sia poetico sia teatrale; ma anche un’opera tedesca che rappresenta un importante anello di congiunzione tra Der Freischütz di Weber e Der fliegende Holländer di Wagner, nella quale i meno informati circa il linguaggio in voga nella Vienna del 1823 indicheranno un’improbabile omaggio ai Singspiel di Mozart e Beethoven. Questo è Fierrabras di Schubert: con la sua Ouvertüre che avrebbe potuto passare alla storia come primo movimento di una sinfonia; con i suoi abbondanti “numeri” musicali che in toni, forme, colori e risorse ricalcano l’intimità del Lied; con le arie quasi azzerate nel prevalere di brani per due, tre, quattro o cinque voci tra cori e marce; nonché con la sua disinvolta e calcolata alternanza tra dialoghi parlati, melologhi e recitativi accompagnati. Recentissima e tuttora rada rimane la sua tradizione esecutiva: mai rappresentato vivente il compositore, disprezzato nel pregiudizio della critica, Fierrabras è stato di fatto rivelato soli trent’anni fa dal caparbio approccio di Claudio Abbado, e nel suo esigente discorso musicale rimane un lavoro per interpreti motivati e ascoltatori esperti.

Di palese interesse risulta dunque il suo primo allestimento al Teatro alla Scala, per sette recite dal 5 al 30 giugno, nel corso di una stagione ove si canta assai in tedesco (quattro titoli su quindici). La parte scenica non è nuova, ma proviene dal Festival di Salisburgo e dalla sua produzione del 2014. La regìa reca la firma di Peter Stein, che al cospetto di una compagnia di canto quasi tutta rinnovata sembra rinunciare in modo definitivo a un convinto lavoro con gli attori – lo ripresa dello spettacolo è non a caso affidata a collaboratori – e al doveroso consolidamento di una drammaturgia assai gracile. Le scene sono di Ferdinand Wögerbauer, dipinte su tessuto e ispirate, nella loro scala di grigi, a xilografie architettoniche di tardo Settecento: problematico risulta però il loro riadattamento dallo spazio anomalo della Felsenreitschule, con il suo palco allungato, poco profondo e privo di arcoscenico, a quello regolamentare della Scala, ove le dimensioni hanno misure inverse e il boccascena effimero si sovrappone – inguardabile pleonasmo – a quello effettivamente costruito da Piermarini. I costumi, infine, sono di Anna Maria Heinreich e riconfermano la tavolozza di bianco, nero e grigio, il rispetto dell’età carolingia nonostante la fredda stilizzazione dei tagli d’abito, infine il pericolo cui è atteso il figurinista che intenda portare in scena i cavalieri paladini senza essere un Pier Luigi Pizzi.

Pericoloso è anche tornare al Fierrabras con il precedente di Abbado, e a maggior ragione per chi lo ebbe come mentore e autore di fortuna: anche al di fuori di quel confronto – e comunque innanzi alle diavolerie retoriche di Schubert – Daniel Harding si attesta come concertatore dall’orizzonte poetico e tecnico poco adeguato. La sua rimane una lettura con fraseggi di modesta intenzione, là dove urgerebbe autorevolezza per favorire un titolo negletto; e lo spettacoloso tremolo giusto all’inizio dell’opera manifesta, per esempio, soprattutto l’esercizio che l’ecellente orchestra scaligera ha già fatto con Chailly, Chung, Gatti e Luisi. Non di primissimo piano è anche l’estrazione dei cantanti, perlopiù accomunati da mezzi naturali cospicui e da rigorosa scuola tedesca, ma anche da scarsa personalità timbrica e faticosa modulazione di linea: è il caso di Tomasz Konieczny come Karl, di Peter Sonn come Eginhard, di Lauri Vasar come Boland e di Bernard Richter come Fierrabras. Poco fantasiosa ma meglio sorvegliata è Anett Fritsch come Emma, cui fanno eco un’impetuosa Dorothea Röschmann come Florinda e una vellutata Marie-Claude Chappuis come Maragond. Quanto al Roland di Markus Werba, ecco infine l’impietosa dimostrazione di cosa significhi dare vividezza caratteriale a un personaggio o rinnovare a ogni passo una parte vocale con sapienza di sfumature.

foto Brescia Amisano