Handel a Martina, Rinaldo rivive

 di Francesco Lora

I massimi operisti dell’epoca si affiancano a Handel nel Rinaldo “impasticciato” nel 1718 a Napoli: inesorabilmente perduto e filologicamente ricostruito, ha festeggiato i suoi tre secoli al Festival della Valle d’Itria, in uno spettacolo che promana intelligenza dalla direzione di Fabio Luisi alla regìa di Giorgio Sangati, e dal canto alla recitazione di Teresa Iervolino, Carmela Remigio, Loriana Castellano e Francesca Ascioti.

MARTINA FRANCA, 29 luglio e 2 e 4 agosto 2018 – Un po’ di storia; anzi, di storie. Nel 1711 George Frideric Handel aveva già lasciato l’Italia e preso servizio in Hannover; soprattutto, compiva il suo primo viaggio a Londra e vi faceva furore allestendo la prima opera italiana sul suolo britannico: Rinaldo, poi lì ripresa nel 1712-14 e ’17 (47 recite) e ancora nel 1731 (radicalmente rielaborata). Il primo uomo della compagnia di canto, quegli cui spettò la parte eponima, era Nicola Grimaldi detto il Nicolino: contralto, castrato e cavaliere. Dalla creazione di Rinaldo al 1717, il cantante fece la spola tra Londra, Napoli e Venezia, per non tornare poi più in Inghilterra; piuttosto, nel 1718 si adoperò affinché sotto il Vesuvio si riallestisse il suo cavallo di battaglia londinese: appunto Rinaldo; una copia della partitura doveva averlo seguìto oltremanica. Ma Napoli non era Londra: vi lavoravano i più importanti cantanti d’Italia e del mondo; vi avevano luogo tradizioni ferree e vi prendevano piede innovazioni; in altre parole: il pubblico avrebbe trovato già antiquate le musiche handeliane e i virtuosi avrebbero rifiutato arie già “usate” da altri in Inghilterra. Si arrivò al solito compromesso, quello che all’epoca accompagnava ogni lavoro di successo a partire dalla prima ripresa: si “impasticciò” l’opera, cioè la si adattò alle convenienze del nuovo contesto. Nicolino intonò le proprie arie londinesi: con l’occasione, rinunciò anche all’ardua «Venti, turbini, prestate» (che forse non gli stava più comoda) e all’unisona «Il tricerbero umiliato» (già parodiata sulla scena di Napoli); tolse invece alla parte di Goffredo la scattante «Mio cor, che mi sai dir?», costituendo nell’atto I una sregolata sequenza di ben tre arie per sé stesso; e rubò alla parte di Almirena la sarabanda «Lascia ch’io pianga | mia cruda sorte», travestita in «Lascia ch’io resti | con la mia pace», lasciando intendere che quell’aria aveva già fatto colpo a Londra. I colleghi accettarono di eseguire con lui i duetti handeliani, e in alcuni casi si appropriarono anche delle arie originali; di norma le sostituirono però con altre del loro repertorio, dovute a compositori come Antonio Maria Bononcini, Francesco Gasparini, Giuseppe Maria Orlandini, Giovanni Porta, Domenico Sarro e Antonio Vivaldi. Il lavoro di forbici e colla fu effettuato sul posto da Leonardo Leo, che adattò i recitativi a nuovi versi e nuovo canto, preparò pezzi chiusi (anche un duetto e un quartetto), aggiunse inoltre un prologo (in onore di Carlo d’Asburgo, imperatore e re di Napoli) nonché tre intermezzi buffi. Vi fu parecchio da lavorare: non solo poiché gli interpreti erano di grido e con licenza di pretese (Armida era Marianna Benti Bulgarelli, la proto-musa ispiratrice di Metastasio), ma anche poiché i loro registri disattendevano spesso quelli originali (Almirena, soprano, e Argante, basso, divennero – per esempio – entrambi contralti). Finite le recite, trionfali, restò a documentarle il solo libretto a stampa, e la partitura tornò smembrata, giacque dispersa, finì insomma perduta: come del resto spesso accade nella volatile parabola di un pasticcio, e così pure per l’ultima apparizione storica di Handel operista in Italia.

La lunga premessa serve per introdurre a un’ulteriore storia e a uno tra gli spettacoli-chiave dell’anno artistico 2018. La storia è quella di un musicologo trentenne, Giovanni Andrea Sechi: nel corso di un decennio, zitto zitto, si è messo in caccia dei brani che nel 1718 costituirono il Rinaldo di Napoli; percorrendo a ritroso le carriere dei singoli cantanti ha individuato i brani serviti al pasticcio (28 su 33; impossibile, invece, ritrovare prologo e intermezzi, di per sé destinati a vita effimera); replicando con coscienza stilistica il semiautomatico lavoro di Leo, ha infine adattato i recitativi ove parole e registri mutano rispetto all’originale. Ed ecco ricostruita la partitura napoletana, come oggi non si potrebbe fare in maniera più filologica. Una curiosità? Di più: si sta parlando della rinnovata genesi di un pasticcio settecentesco, nonché della via che, dopo lo studio, consente di tornare ad ascoltarlo e rappresentarlo. Il progetto qui descritto restituisce inoltre una piccola enciclopedia del linguaggio musicale operistico praticato in Italia: le ben note arie-capolavoro di Handel, danzanti ed espressive, spiegano in quanto tali il loro successo immediato presso il pubblico non italofono di Londra; quelle degli italiani, oggi rare, sono al confronto un più moderno saggio di eleganza, imprevedibilità e chiarezza, senza negare ai versi poetici il primo piano. Ci voleva il fiuto del Festival della Valle d’Itria per spronare la ricerca di Sechi alla fase finale e confezionarvi sopra, dopo tre secoli esatti, la prima rappresentazione in età contemporanea del perduto, compianto e ricostruito Rinaldo napoletano di Handel-Leo: tre memorabili recite nel cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca, il 29 luglio e il 2 e 4 agosto, al cospetto di musicofili giunti come i re magi dietro la stella cometa (ma anche di qualche bastiancontrario il quale, capitato per caso al più raffinato dei festival, si lagnava di non ricevere il solito Rinaldo). Quando si restituisce alla scene un’opera di spiccato interesse storico, testuale e musicologico, non meno di quando si dia una Lucia di Lammermoor, una Traviata o una Madama Butterfly, la prima angoscia dello spettatore non fortuito è il dolo che possa derivare dalla lettura teatrale: per ogni filologo che riporta il testo in ordine (dedizione), c’è sempre un regista pronto a sabotargli il lavoro (noncuranza). Sospiro di sollievo a Martina Franca: il regista, Giorgio Sangati, scuola di Luca Ronconi, è lo stesso giovane che l’anno scorso aveva lì debuttato nel teatro d’opera con Le donne vendicate di Niccolò Piccinni, incantevole spettacolo costato due lire e molto olio di gomito. Dopo il sospiro di sollievo, qualche appunto sul suo Rinaldo, il quale fa addirittura scuola. Primo: quella di Sangati è una lettura critica, ironica, curiosa, degna di chi venga dall’avanguardia del teatro di parola, ma tutta condotta dentro la meticolosa conoscenza del libretto e il reverente ascolto della partitura. Secondo: la sua idea di base, nella quale si attua l’inevitabile trasposizione spazio-temporale, non istituisce il debole pretesto oggi solitamente in auge, ma dà innesco travolgente, coerente svolgimento e materia di riflessione all’intero progetto.

Complici le plumbee scene di Alberto Nonnato e gli ipercaratterizzanti costumi di Gianluca Sbicca, si vedono i divi della compagnia di canto settecentesca riflettere sé stessi e i rispettivi ruoli nelle star storiche della musica pop-rock (i crociati) o dark-metal (i pagani). Rinaldo corrisponde a Freddie Mercury, Almirena a Madonna, Armida a Cher, Argante a Gene Simmons, Goffredo a Elton John, Eustazio a David Bowie: l’evidenza tardo-barocca della Napoli musicale 1718 si specchia con immediatezza nella neo-barocca reinvenzione degli scorsi anni Ottanta. Ha poi luogo l’apoteosi del restauro filologico. Applicato soprattutto ad architettura e arti figurative, e teorizzato da Camillo Boito (fratello di Arrigo), esso è quello che scongiura la confusione tra parti originali e interventi successivi, e che armonizza gli espedienti necessari al mantenimento senza che vi sia falsificazione. Rinaldescamente tradotto: anziché espungere il prologo e gli intermezzi rimasti senza musica, o anziché caldeggiarne una veste cantata posticcia e fuorviante, Sangati li affida tali e quali ad attori che ne declamano i versi; lo spettatore fruisce così del libretto senza amputazioni interne, e insieme ne apprezza a nudo le strutture metrico-formali: là ove si ostenta la mancanza della musica, si finisce per comprenderne meglio il ruolo. Fruttuosa si prospetta dunque la dialettica tra regista e concertatore. Alla testa della lussuosa orchestra con strumenti originali La Scintilla, questi è Fabio Luisi, disinibito nell’estendere alla letteratura preclassica il già sterminato repertorio: fresco di Zandonai e Hindemith, in Handel, Leo e soci sorprende per incisività di fraseggio, idiomatismo stilistico e naturalezza d’incedere, lasciandosi preferire a una folta schiera di specialisti. Chi ricerchi l’erede di Marilyn Horne, Ewa Podles e Daniela Barcellona, là per bronzo e qui per velluto, là per accento e qui per dizione, là per coloratura e qui per legato, ascolti infine lo sfarzoso e commosso Rinaldo del contralto Teresa Iervolino. Si perda poi nella carismatica statura di prima donna esibita da Carmela Remigio come Armida: scontatamente irreprensibile nella spontanea forbitezza del canto, basta che sussurri una sillaba o muova un ciglio per avocare a sé il palcoscenico, prima fra tutte nel far propria la lezione di Anna Caterina Antonacci. Eccellente la restante collezione di contralti: Loriana Castellano come vivida, rotonda e colorita Almirena; Francesca Ascioti come cangiante, protervo e amoroso Argante; Ana Victória Pitts come Mago cristiano divertito della propria ieraticità. Non ideale il tenore Francisco Fernández-Rueda, avvezzo a una più lieve scrittura secentesca, in quella enfatica e baritonaleggiante di Goffredo. Puntuali le prove dei soprani Dara Savinova come Eustazio (ma la tessitura sarebbe contraltile) e Kim-Lillian Strebel come Spirito in forma di donna (generosa nel canto della sua siciliana). Impagabili gli attori Valentina Cardinali e Simone Tangolo nei panni dei servitori Lesbina e Nesso: mietono applausi negli intermezzi e sanno anche intonare a puntino le battute di recitativo nei dialoghi con le prime parti. Uno spettacolo che promana intelligenza.