Due rarità

 di Stefano Ceccarelli

All’Accademia Nazionale di Santa Cecilia Gianandrea Noseda porta un programma con due autentiche rarità, che mancavano dai cartelloni dell’Accademia rispettivamente dal 1971 e 1969: il Concerto gregoriano, per violino e orchestra di Ottorino Respighi e la Sinfonia n. 1 in mi maggiore per mezzosoprano, tenore, coro e orchestra op. 26 di Aleksandr Skrjabin. Il concerto è ottimo e giustamente applaudito.

ROMA, 1 marzo 2018 –Quando è possibile gustare di rarità musicali, è sempre un piacere. È questo il caso dell’ultimo concerto all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, dove sotto la vigile bacchetta di Gianandrea Noseda s’eseguono due pezzi di rara bellezza, relegati (come molta musica, poesia, arte ecc., purtroppo) a ruolo di rarità, appunto.

Ascoltando il Concerto gregoriano di Respighi, però, si capisce bene il perché: è un pezzo stupendo, sì, ancorché decisamente poco appariscente, violando per così dire il codice di prammatica narcisistica che guida – anche giustamente, per carità – molte carriere solistiche contemporanee, che si arrovellano in un sempre maggiore perfezionismo, in una sorta di competizione agonistica a distanza con interpreti passati e loro contemporanei, ma quasi sempre sugli stessi pezzi. Questo è certo giusto, specialmente quando s’è difronte a capolavori che hanno fatto la storia, ma andrebbe alternato, anche per ‘respirare’ altra aria, con composizioni più ricercate: e Respighi fa perfettamente al caso. L’interprete odierna, Sayaka Shoji, col suo melodioso Stradivari del 1729, dopo un decennio d’assenza dal palco dell’Accademia, torna per allietarci in questa lunga, meditativa melopea del violino, sorretto da un’orchestrazione mai di contorno, ma sempre tesa alla parità di gerarchia con lo strumento. Il Concerto gregoriano era stato eseguito – si pensi! – per l’ultima volta nel 1971 in Accademia. Il I movimento procede per campiture sonore paratattiche: Noseda è bravo a mantenere compatta questa scrittura ‘macchiaiola’ e a far interagire bene la pasta orchestrale con il violino solo, che non emerge nettamente se non nella cadenza, dove ci rendiamo palpabilmente conto del talento della Shoji, che si staglia energica, netta, leggendo con bravura una delle rare pagine virtuosistiche del pezzo, fatta di salite e doppie corde. La Shoji ci fa vedere di che pasta è fatta: il suo violinismo, poco appariscente, ma solido, netto, appunto, è perfetto per il pezzo: è brava a allargare il volume, come pure a stagnare flebilmente il suono sulla corda. Senza soluzione di continuità si passa al II: si può qui ascoltare il tema propriamente gregoriano, intonato con grande precisione dalla solista, concentrata sino quasi a un afflato sacro, fino a che non si passa alle variazioni e il gioco con l’orchestra si fa più vario. Nel III movimento la solista può far sfoggio di un virtuosismo più marcato nell’esaltazione pasquale del tema: perfetta la sintonia con Noseda e l’orchestra dell’Accademia, che al solito esegue la parte magnificamente. Dopo una rapsodia fra violino e orchestra, il finale giunge ottimo, solare. Gli applausi del poco pubblico in sala (un vero peccato!) sono dal cuore: è uno di quei pezzi la cui raffinatezza si percepisce forse dopo un po’ che lo si è ascoltato, meditando e ripensandoci, come a un buon piatto. La Shoji non si congeda se non dopo un breve bis bachiano.

Il secondo tempo è dedicato all’esecuzione della Prima di Skrjabin. Noseda dirige con gesto sicuro una sinfonia poliedrica, non certo esente da un afflato sacrale che ritroviamo – certo diverso – dopo il Gregoriano di Respighi. Del primo Lento (I) si apprezza la gestione perfetta delle sezioni sonore della sinfonia, che Noseda porge però con geometrismo non stringente, facendo cantare il seducente tema, che trasvola di strumento in strumento, facendoci apprezzare la tinta timbrica incredibile dell’orchestra. Noseda è bravo nel passare al contrasto spigliato e incisivo dell’Allegro drammatico (II), com’è altrettanto bravo a far rientrare l’orchestra nell’atmosfera di quiete screziata di dolcezze timbriche, con una tenuta dell’orchestra stessa impressionante, nel secondo Lento (III). Assolutamente delizioso il Vivace (IV), dove Noseda si concentra sul ritmo coreutico e i danzanti colori dell’orchestra: magia delle magie, il particolarissimo Trio, forse il momento esteticamente più bello della sinfonia, dove l’impasto sonoro di violino, ottavino e Glockenspiel crea un’atmosfera onirica. Noseda è bravo, poi, a imbrigliare nuovamente l’orchestra in un’agogica netta e drammatica, che esalta l’Allegro (V). Il finale (VI), una sorta di Inno alla Gioia di Skrjabin per coro e due voci, è tenuto assieme da Noseda come meglio non si potrebbe: il coro canta straordinariamente – come al solito – e i due solisti, Anna Maria Chiuri e Sergey Radchenko, interpretano altrettanto magnificamente i loro ruoli, con emissioni perfettamente in maschera, potenti, piene, timbricamente assai gradevoli. Le voci e il finale coro inneggiano all’Arte come dono supremo e divino: Skrjabin, qui, non può che scegliere la struttura della fuga, da secoli semanticamente veicolante la perfezione del divino, su una melodia che rimane ben stampata, per dolcezza, alla mente degli ascoltatori. Al termine si levano genuini applausi che ripagano dello sforzo gli interpreti.

foto Musacchio e Ianniello