Smarrirsi a Passy

 di Roberta Pedrotti

Un ottimo cast musicale si raduna intorno a un'idea intrigante e stuzzicante dedicata agli ultimi anni di Rossini, ma non convince la realizzazione finale dello spettacolo.

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PESARO 18 agosto 2018 - L'associazione fra il Rossini delle Soirées musicales e dei Péchés de vieillesse e il cabaret non è certo peregrino, anzi: la verve, l'arguzia, l'esuberanza e, per converso, il tocco surreale, visionario, cupo, inquieto, malinconico, ambiguo, sfacciato delle composizioni cameristiche del Pesarese non si sottraggono a un'affinità elettiva con il cabaret espressionista e dadaista, con Schönberg, Weill, Satie e dintorni più o meno leggeri, più brillanti o umbratili.

Si può giocare, con i ricordi musicali degli ultimi anni di Rossini, delle serate a Passy o alla Chaussée d'Antin, ma non senza qualche vena straniante o perturbante. Ben venga, allora, l'idea del cabaret, con tutte le sue implicazioni, le sue accezioni, le sue sfumature che si ritrovano in un programma ben costruito e ben variegato attraverso pagine d'opposto carattere. Come in un'accademia, in una festa musicale, il colorito florilegio rossiniano s'intreccia a omaggi di diversa estrazione: i couplet Le 29 février per il “diciottesimo” compleanno del Pesarese (vale a dire per il diciottesimo anno bisestile dopo il 1792, il 1864) di Gustave Nadaud, il Duetto buffo per due gatti (dovuto principalmente a Christoph Weyse), il valzer Beauséjour di Isaac Strauss (bisnonno dell'antropologo Claude Lévy-Strauss e anch'egli residente alla Chaussée D'Antin), la Mélodie per violino e pianoforte di Michel-Frédéric Pillet-Will (il padre di Alexis, mecenate della Petite Messe Solennelle). Non mancano nemmeno due belle canzoni napoletane storiche, Cannetella e Fenesta vascia, a ricordare il legame con la città culla di tanti capolavori e dell'amore con Isabella Colbran.

Cinque voci si alternano e s'incontrano nell'incalzare della scaletta. Anna Bonitatibus vanta ancora una volta la sua musicalità colta e sofisticata senza, parimenti, mancar di spirito; Sofia Mchedlishvili conferma l'evoluzione di una voce che acquista rotondità senza perdere in smalto e freschezza; Ruzil Gatin nel Mi lagnerò tacendo “all'antica” dimostra un'adeguata stilizzazione di fraseggio ed emissione; Daniele Antonangeli, poi, ribadisce a sua volta le belle qualità di spigliatezza, timbro, duttilità. Per i couplet di Nadaud e le canzoni napoletane, abbiamo invece la presenza di Massimo Ranieri, vale a dire di un artista carismatico, capace di cesellare come pochi le melodie partenopee, di coniugare la sensibilità e lo spirito del musicista a una padronanza rara del palcoscenico. Si uniscono a loro Gabriel Martinotti, giovane violinista tuttora studente al Conservatorio Rossini, ed Eugenio Della Chiara, raffinato chitarrista pesarese emergente; con due strumentisti delle ultime generazioni, la storia incarnata da Antonio Ballista, glorioso alfiere, nel secolo passato, sia del Rossini pianistico degli ultimi anni, sia del più spiritoso e surreale repertorio novecentesco. Inutile negare che lo smalto si sia un po' appannato e che sia sfuggita qualche imprecisione. La sua presenza, negli equilibri della locandina, poteva avere un significato profondo e suggestivo.

Purtroppo non tutto nella realizzazione è stato, però, all'altezza delle premesse e delle potenzialità degli artisti. Alla splendida scelta musicale e alle note di sala colte e acute curate da Emilio Sala ha corrisposto, da parte del medesimo musicologo, una costruzione drammaturgica non altrettanto convincente: fatta eccezione per una descrizione dettagliata degli intimi problemi di salute di Gioachino, tratta dalla corrispondenza fra Olympe Pélissier e il medico di fiducia ma d'effetto più morboso e grandguignolesco che delicatamente funzionale alla contestualizzazione del dolore sotteso all'ironia di molti brani, la selezione dei documenti storici, giornalistici ed epistolari, può essere appropriata. Meno i dialoghi e gli interventi immaginati ex novo: di certo la povera Olympe non raccoglie troppa simpatina nell'aneddotica, ma non merita nemmeno di essere dipinta come la caricatura di un'accigliata Santippe; parimenti la presentazione finale degli ultimi brani ha uno stile, più che raffinato cabaret, da locale non troppo alla moda o da show televisivo. Non aiuta nemmeno l'idea di proporre le voci degli attori (Valentina Ferrari e Mario Cei) fuori campo, diffuse da altoparlanti.

Interlocutoria anche la scelta delle proiezioni (a cura di Le stazioni Contemporary art di Carlo Cinque con interventi artistici di Emilio Isgrò e Antonio Trimani, assistente video Franco Fiume) che costituiscono la scenografia del concerto: la riproduzione della camera acustica dell'Auditorium Pedrotti si trasforma nelle immagini della villa di Passy, di parchi e vegetazione. Bene, ma quando a questi si alternano formicai febbrili, bimbi subacquei, campi con tralicci per le reti elettriche, si perdono via via anche la relazione con la musica, anche le suggestioni di possibili allusioni, anche un mero piacere estetico. Curioso davvero che una messa in scena, una realizzazione teatrale in fin dei conti zoppicante risponda non solo al nome di uno studioso intelligente e arguto come Sala (ma, forse anche la verve del conferenziere non è necessariamente sempre quella del drammaturgo, non sarebbe il primo caso del genere) ma anche a quello di un regista di lungo corso come Filippo Crivelli, che realizza uno spettacolo che lascia un po' l'amaro in bocca, come un'occasione perduta che sembra svilire in generica rivista - più che in nobile cabaret - gli indubbi, carismatici talenti in scena. Peccato.

 

foto Amati Bacciardi