Eppur si muove

 di Antonino Trotta

 Da un lato uno dei concerti per pianoforte più eseguiti al mondo, dall’altro uno dei balletti classici più celebri del Novecento: dalle ceneri di una critica impietosa, due capolavori «ineseguibili» volano sul palcoscenico del MITO SettembreMusica.

Torino, 13 Settembre 2018 – Ieri più di oggi, quando il fervido sperimentalismo animava la fertile creatività di innumerevoli compositori-pionieri, stretti nella terribile morsa tra l’ingombrante peso del pregresso e l’appassionato anelito di rinnovamento, l’esplorazione di canoni estetici e formali ha innescato serrate trasformazioni nella concezione e nell’attuazione della musica, con risultati talvolta spiazzanti se paragonati a quanto allora si potesse ritenere tradizione consolidata. Tale raffronto ha consegnato, e consegna tuttora, alla cronaca celebri stroncature della critica musicale, vuoi perché anestetizzata da sovrastrutture imbastite sulla memoria del passato, vuoi semplicemente per una sensibilità allora troppo acerba per accogliere talune avanguardie, di cui ancora la storia si fa beffe. Tra le tante ascritte negli annali, la più clamorosa rimane senza ombra di dubbio quella del concerto no.1 per pianoforte e orchestra op. 23 di Čajkovskij, brano d’apertura nella serata MITO SettembreMusica intitolata “Passioni”.

Cavalcare la fragile corda melodica, tesa sul baratro di un tecnicismo spregiudicato, equivale a una pericolosa impresa di funambolismo e Elisso Virsaladze sfoggia nell’impervio concerto un autentico pianismo di razza, bilanciere nel perfetto equilibrio tra la cantabilità dispiegata e l’imperioso virtuosismo esatto da una scrittura pianistica davvero intricata. Giorgiana di nascita ma moscovita di formazione, la Virsaladze s’impone per una lettura maestosa e sicura, fregiata da un fraseggio cristallino anche laddove la trama musicale si fa più fitta. L’Andantino semplice, in tal senso, è un vero tripudio di purezza timbrica. L’estrema fluidità del tocco e la precisione nell’attacco del tasto profondono quindi all’Allegro non troppo e molto maestoso e all’Allegro con fuoco una pronunciata fierezza che smorza i sentimentalismi della partitura e restituisce il concerto in una veste sfacciatamente gagliarda. Si avverte tuttavia la mancanza di dinamiche ben marcate e la resa pianistica sfora di un soffio la perfezione. Dispiace dunque non trovare altrettanto stimolante la concertazione di Vasily Petrenko, poco attenta all’opulenza di tanto materiale sinfonico. Al di là di qualche fastidiosa imprecisione dell’Orchestra del Teatro Regio nei pizzicati del secondo movimento, non c’è affilatura nei climax, tensione nelle frasi e le esplosioni pianistiche come le imponenti ottave nelle cadenze e le cascate di accordi nel finale primo e terzo sgorgano da un’orchestra già saturata in volume.

Maggiori soddisfazioni arrivano dalle suite no. 2 e no.1 (Scena, Maschere e Morte di Tebaldo) da Romeo e Giulietta, ulteriore flop della critica, divenuto oggi uno dei balletti classici di riferimento. Petrenko dirige un Prokof’ev molto solenne nei tempi staccati (se si esclude la scena di sortita, Montecchi e Capuleti, troppo avvincente per rinunciare a impennate sonore ipertrofiche), sinuoso nel dialogo tra i fiati nel finale della scena prima della separazione dei protagonisti, austero in quella di Romeo sulla tomba di Giulietta, maestoso nel quadro conclusivo. Si valorizza il potere evocativo di una musica così plastica, pregna di sfumature e intrecci strumentali che da soli scandiscono l’incedere dell’intera narrazione. Non è da sottovalutare, nella somma totale, il contributo offerto dalla familiarità dell’Orchestra del Teatro Regio con questo repertorio (anche quest’anno il balletto è in cartellone) e, a differenza del lavoro iniziale, dipana uno spettro timbrico decisamente più tornito.

Ancora una volta il calore negli applausi conclusivi conferma l’affezione indiscussa del grande pubblico a questi lavori «ineseguibile». Ancora una volta, a ritrattare, non saranno gli artisti dal pensiero libero.