Il ciclo della vita

 di Stefano Ceccarelli

L’Istituzione Universitaria dei Concerti inaugura gli appuntamenti del sabato, per la stagione 2018/2019, con una splendida esecuzione dell’oratorio Die Jahreszeiten di Franz Joseph Haydn. Esecutori ne sono l’Orchestra del XVIII secolo (Cappella Amsterdam), diretta da Marcus Creed; solisti Ilse Eerens, Marcel Beekman e André Morsch. Il successo è testimoniato anche da una sala gremita e giustamente plaudente.

ROMA, 20 ottobre 2018 – La IUC inaugura la stagione 2018/2019 dei concerti del sabato con un’opera monumentale: l’oratorio Die Jahreszeiten di Haydn (Hob. XXI: 3). Le Stagioni è un grande affresco che parla del trascorrere della vita, del rigoglio della natura, della morte delle piante e del ritorno, ciclicamente, della vita stessa. È una partitura ispiratissima, dove Haydn ha saputo sfruttare tutte le sonorità tradizionali dell’evocazione della natura e della campagna in musica, dandogli una facies che sarà ben impressa nelle menti dei posteri, come quelle di Beethoven e di Rossini. Proprio la monumentalità di un’opera del genere richiede un’esecuzione quanto più accurata possibile, per rendere al meglio la miriade di sonorità che Haydn sceglie di condensare in un unico oratorio, basato semplicemente sulla vita di tre contadini, i due promessi sposi Hanne e Lukas e l’anziano Simon, che veglia sulla loro unione. La simbologia che presiede al senso generale della composizione è semplice, di quel lindo linguaggio puramente illuministico, che parla più apertamente di quanto non si sia voluto credere (l’esempio massimo ne è Die Zauberflöte, con cui certo Die Jahreszeiten condivide un background anche di cultura massonica).

Venendo all’esecuzione, non possono che farsi vivi complimenti al direttore Marcus Creed, che mostra una sensibilità infinita per un’opera che racchiude in sé un’infinità di linguaggi. I momenti puramente orchestrali sono diretti magnificamente: mi riferisco in particolare alle quattro introduzioni, che caratterizzano con gusto descrittivo e bozzettistico le varie stagioni dell’anno, ma anche ai momenti di accompagnamento delle arie o dei corali, dove carpisce sempre, con stile e gusto, il precipuo colore del pezzo. L’Orchestra del XVIII secolo (Cappella Amsterdam), del pari, suona magnificamente, in tutte le sue componenti; anche il coro merita un plauso particolare, soprattutto nella caratterizzazione delle scene più complesse e imponenti. Il colore, dicevo, che è un elemento fondante di quest’opera. Creed esprime appieno la tavolozza cromatica dell’oratorio: la Primavera è diretta con freschezza ritmata, coreutica, a tratti energica, a tratti semplicemente brillante, subito dopo che l’ouverture ha rappresentato lo svanire dell’Inverno; l’Estate è interpretata con la sonnolente e paludosa agogica, di vivaldiana memoria; l’Autunno con la corposa energia danzante della ripresa piena delle attività agricole e di quelle della caccia; l’Inverno con la glaciale acutezza delle tonalità atte a esprimere il gelo e la stasi mortifera della vita. Nel finale dell’Inverno avviene il miracolo: la trasfigurazione (anche sonora) della morte nella vita. I momenti corali sono diretti con perizia millimetrica e con esecuzione magnifica; e sono, inoltre, sempre caratterizzati dal colore specifico di ciò che vogliono esprimere: esempi perfetti ne sono il temporale estivo, la cui violenza tradotta musicalmente sarà ben presente a Rossini e al Beethoven della Pastorale («Ach, das Ungewitter naht!»); il corale della caccia e della vendemmia alla fine dell’Autunno, che tocca vette di espressionismo di notevole effetto (si pensi solo alla caccia al cervo); e il saluto al sole nascente nell’Estate, che utilizza, per suggerire la luce, il passaggio fra tonalità minore e maggiore, come sarà per il Rossini dell’inizio del Mosè in Egitto.

I tre cantanti hanno voci perfette per questa partitura. La Hanne di Ilse Eerens ha un timbro etereo, un’emissione fluida, acuti ottimamente porti, come pure le frequenti messe di voce che la parte le richiede; nelle sue arie e negli ensemble canta sempre bene: appare fresca e allegra nel duetto d’amore con Lukas (n. 25); tanto malinconica nella sua cavatina, «Licht und Leben sind geschwächet», quando radiosa nell’aria estiva «Welche Labung für die Sinne»; incredibile per fraseggio e spirito mimetico nell’invernale Spinnerlied. Marcel Beekman canta un perfetto Lukas, tanto nell’abilità di fraseggiare nei recitativi, conferendo profondità etica al personaggio, quanto nei duetti, terzetti e nelle arie: tutta giocata su volumi a fior di labbra e toni, letteralmente, ‘arsi’ è la sua aria estiva «Dem Druck erlieget die Natur»; più virtuosistica, in particolare nell’uso di un canto maggiormente dinamico, l’aria invernale «Hier steht der Wand’rer nun». Un timbro scuro ma gentile e un’emissione incredibilmente melliflua, piacevolissima, caratterizza la voce di André Morsch, che esegue stupendamente la parte del senile Simon. Le sue arie sono tutte ottimamente caratterizzate, nel colore come nel fraseggio. Dalla prima, «Schon eilet froh der Ackersmann», emerge una georgica gioia, presente anche, con gusto bozzettistico, nella seconda, «Der mun’re Hirt versammelt nun die frohen Herden»; l’aria autunnale, «Seht auf die breiten Wiesen hin!», è un gioiello di virtuosismo e di colore naturalistico, soprattutto nell’accelerata sezione in cui si evoca la cattura di un uccello da parte di un cane della muta, preso da un raptus di fame; infine, l’aria conclusiva («Erblicke hier, betörter Mensch»), che precede la trasfigurazione del finale, è di una monumentalità etica che necessita di un canto pieno e ben scandito, come del resto esegue Morsch.

Un’esecuzione, dunque, sontuosa, in una cornice tutto sommato raccolta come quella della IUC, che consente l’apprezzamento di un suono autenticamente filologico, storico nel senso non deteriore del termine. È ora che questo capolavoro, spesso poco eseguito, entri stabilmente nelle sale da concerto.