Bartók and Company

 di Alberto Ponti

Un'intensa esplorazione sul Novecento ungherese apre la rassegna Rai NuovaMusica

TORINO, 9 novembre 2018 - Il primo appuntamento di Rai NuovaMusica, inauguratasi venerdì 9 novembre e quest'anno articolata in tre concerti diluiti nell'arco dell'intera stagione, non poteva trovare una guida più attenta e partecipe di quella di Heinz Holliger.

Il grande oboista svizzero, dedicatario di brani di molti tra i massimi autori della contemporaneità ed egli stesso compositore, ha ormai fatto della direzione d'orchestra la sua attività principale con esiti notevolissimi e spesso sconosciuti alla maggior parte dei colleghi passati da uno strumento alla bacchetta. Alla riuscita di un programma affascinante incentrato su tre cardini della moderna musica ungherese quali Bartók, Kurtág e Ligeti contribuisce infatti non solo la conoscenza diretta della temperie creativa del secondo Novecento ma anche una visione personale che non teme scelte originali e talvolta controcorrente rispetto alla consueta prassi interpretativa. È questo il caso di Stele op. 33 (1994) che segnò per György Kurtág (1926) l'esordio nella scrittura sinfonica dopo la perfezione dei precedenti capolavori cameristici e vocali. E' noto quanto lo schivo maestro, oggi novantaduenne, abbia centellinato la propria produzione, con ripensamenti e rifacimenti durati anni se non decenni, tanto da lasciare il mondo musicale in trepidante attesa per l'imminente prima mondiale scaligera della sua opera teatrale Fin de partie. Holliger non è intimorito dalla vastità di un'orchestra pressoché mahleriana (con ben 20 legni e 17 ottoni), che scatena nella parte centrale (Lamentoso – Disperato, con moto) a livelli di sonorità sovrumani, portati a una tensione quasi insostenibile dalla dilatazione del tempo con il risultato di un'esecuzione arrestatasi sulla soglia dei 20 minuti contro i 13/14 di tutte le incisioni reperibili. Prima e dopo, il deserto delle due sezioni estreme, divise tra emozionanti brulichii sotterranei e sprazzi di corali ridotti a semplici intervalli quando non a note singole intervallate da eloquenti silenzi, rende ancora più misteriosa la meditazione sulla morte implicita nel titolo. Il suo gesto asciutto, di rigore cartesiano evocato da energiche discese del braccio sinistro, procede qui per sottrazione in aspro contrasto con la perorazione disperata del cuore del pezzo. La levigatissima versione di Abbado, che pure tenne a battesimo Stele coi Berliner Philarmoniker, è al confronto tecnicamente ineccepibile ma non trasmette i medesimi inquietanti interrogativi.

Un'infinita pulsione ritmica, condotta allo scoperto anche dove meno te lo aspetti (come nella meravigliosa Elegia), innerva anche il celebre Concerto per orchestra (1945) di Béla Bartók (1881-1945). Ogni scorcio della geniale partitura, che Holliger concepisce come flusso incessante con minime pause tra i movimenti, è ricreato portando alla luce i cangianti contrasti timbrici di cui è ammantata la tavolozza bartokiana. Ne sortisce un equilibrio mirabile tra chiarezza della forma e inventiva del discorso: il colore di certi legati degli archi, memore delle amate melodie popolari dell'Europa orientale, compenetra così con naturalezza nella concitazione percussiva dell'Intermezzo interrotto e del Finale. Suggestioni visive vengono risvegliate dagli interventi concertanti delle singole voci: la bacchetta si trasforma in un pennello che opera una riuscita sintesi tra la passionalità geometrica di un Mondrian e la straripante vitalità curvilinea di un Kandinskij.

La presenza di Pierre-Laurent Aimard nel Concerto per pianoforte e orchestra (1988) di György Ligeti (1923-2006) si invera nelle abbaglianti iridescenze del dialogo con un gruppo strumentale di piccole dimensioni: sette fiati utilizzati singolarmente, un paio di percussionisti e una ridotta sezione di archi. Il pianista francese conferma la fama di interprete privilegiato di questa pagina: l'infinità varietà del tocco è in grado di passare dal pungente eloquio del Vivace molto ritmico e preciso al successivo Lento e deserto di stupefatta immobilità, eppure percorsa da fremiti impercettibili. L'autentico tour de force a cui Ligeti sottopone il solista passa ancora attraverso complesse strutture poliritmiche alternate al lancinante ricordo di oasi liriche nel vorticoso blocco formato da Vivace cantabile, Allegro risoluto, Presto luminoso. Aimard ne esce con elegante efficacia senza mai sacrificare l'immediatezza espressiva richiesta dal compositore.

Gli applausi impetuosi della platea premiano la scelta di una programmazione che sta conquistando, anno dopo anno, spazi crescenti di pubblico alla rassegna. L'entusiasmo dei tanti giovani presenti in sala ha d'altronde un solo significato: al di là di Bartók, non da oggi nel novero dei grandi della musica, anche Ligeti e un vivente come Kurtág sono già considerati dei classici. In un'epoca incline alla lamentela endemica c'è di che rallegrarsi: Bach, ai suoi tempi, non ebbe sorte così favorevole.