Esuberanti malinconie

 di Alberto Ponti

Il canto nostalgico del Concerto per violino di Sibelius si contrappone alle geometrie inquiete di Prokof’ev

TORINO 16 novembre 2018 - Più giovane di Cajkovskij ma non ancora radicalmente innovativo come la generazione successiva di Prokof'ev (che ebbe come allievo) e Stravinskij, Anatolij Ljadov (1855-1914) rimane un autore affascinante e, sia pur nei limiti della composizione di breve respiro da cui non seppe o volle mai affrancarsi, geniale. Il poema sinfonico Kikimora op. 63 (1909) condensa in pochi minuti i migliori tratti del suo stile, tra un'invenzione melodica sempre fascinosa e un'orchestrazione assai felice. La partitura, che a suo tempo conquistò anche Arturo Toscanini (esiste una splendida registrazione con la NBC Symphony), si articola in una ragnatela splendente di suoni, dapprima in una calma inquieta da berceuse per finire in una diabolica ridda infernale, essendo d'altronde il titolo riferito a un diabolico spirito femminile della mitologia russa. L'esecuzione di Andrej Boreyko, alla guida dell'Orchestra Sinfonica Nazionale il 15 e 16 novembre, attenua i contrasti timbrici più acuti privilegiando le mezze tinte con una cura della sfumatura e del fraseggio che avvicina l'opera all'universo francese, figlia più di una berlioziana Regina Mab che dei Mephisto-Walzer dello sfrenato Liszt.

Dopo un appetito così abilmente stuzzicato, gli orecchi del pubblico attendevano trepidanti l'apparizione del violinista armeno-austriaco Emmanuel Tjeknavorian in un piatto forte quale il Concerto in re minore op. 47 (1904) di Jean Sibelius (1865-1957). Aspettative non deluse: il giovanissimo solista (classe 1995), già vincitore nel 2015 del concorso internazionale intitolato al compositore finlandese per la migliore interpretazione di questo pezzo, si dimostra magistrale nel controllo tecnico, accoppiato ad un'eccellente intonazione e a una sensibilità artistica già matura e personale. Tjeknavorian appartiene alla categoria di virtuosi che fanno apparire semplici e frutto apparente del minimo sforzo i passaggi più ardui. Ne consegue un controllo nell'espressione in grado di mantenere da cima a fondo la cantabilità nell'Allegro non tanto conclusivo, disseminato di ostacoli tecnici, oppure nella grandiosa cadenza del primo movimento Allegro moderato, in cui il gesto del protagonista si inserisce con sintonia pittorica nel quadro degli sterminati paesaggi nordici dipinti dalla mano di Sibelius con sublime tristezza nostalgica, ribadita dai puntuali, sussultanti interventi dell'orchestra. Alla generosa intensità così ampiamente profusa agli estremi del brano, si oppone una controllata asciuttezza nel cantabile Adagio di molto centrale, dalla compenetrazione totale tra solo e tutti, inverando la commossa confessione intima che fa della pagina uno dei vertici della produzione del suo autore.

L'orchestra della Rai e Boreyko salgono sugli scudi dopo l'intervallo con una trascinante lettura di un capolavoro del calibro della Sinfonia n. 5 in si bemolle maggiore op. 100 (1944) di Sergej Prokof'ev (1891-1953). Opera dall'eloquio immediato, nonostante l'abilissima e complessa costruzione formale, la Quinta deve forse a questa freschezza espressiva il fatto di essere, insieme alla Prima, l'unica tra le prove del musicista russo nel massimo genere strumentale ad essere entrata con una certa frequenza in repertorio, a scapito di altri numeri di catalogo non inferiori per valore (pensiamo soprattutto alla Seconda e alla Terza sinfonia). Il sessantenne direttore originario di San Pietroburgo dimostra una consuetudine innata con tale repertorio, mettendo a fuoco ogni particolare della variegata e sempre originalissima strumentazione, chiamando a levarsi in piedi al termine, tra l’applauso generale, una ad una tutte le prime parti. La sua bacchetta si sofferma con particolare accento sulle parti più drammatiche dell’intenso Andante iniziale, facendone l’emblema di una ‘sinfonia di guerra’ quasi alla Šostakovič, debitrice, nonostante l’ottimismo di fondo, al contesto storico in cui vide la luce. Pure nel celebre Allegro marcato la scelta di un tempo più lento rispetto alla prassi corrente ne mette in luce una natura inaspettatamente meditativa, insieme tuttavia alla perfetta coerenza architettonica interna, sviluppata con matematica bellezza a partire dalla semplice terza minore fa-re esposta dai violini nelle prime battute. Un respiro a pieni polmoni si avverte nel disteso Adagio e nel successivo Allegro giocoso dove emerge la maestria di Prokof’ev, tra i massimi creatori di melodie del Novecento, nel far convivere l’enfasi del discorso con invenzioni ritmiche strepitose fino al miracolo di una coda inattesa, terribile e ironica allo stesso tempo: di fronte al crescendo che Boreyko riesce ad ottenere anche il più distratto degli ascoltatori avrebbe l’impulso a levarsi in piedi di scatto.