salome, elisabet strid

I volti della Luna

 di Roberta Pedrotti

Nell'avvicendarsi delle compagnie, l'inatteso debutto bolognese di Elisabet Strid quale Salome costituisce un entusiasmante valore aggiunto per la produzione concertata da un grande Juraj Valčuha.

Leggi anche la recensione della prima:Bologna, Salome, 15/02/2019

BOLOGNA, 16 febbraio 2019 - Salome, come la Luna, è una e molteplice; serbando il suo lato oscuro ci mostra sempre lo stesso volto, ma differente ogni volta, per la luce in cui appare, per gli occhi di chi guarda.

Così cambia, fra nuovi veli, nel sopraggiungere di Elisabet Strid, che arriva a sorpresa a Bologna a soli tre giorni dal debutto in sostituzione della collega inizialmente prevista per le recite del 16 e del 19 febbraio. Il soprano svedese è ancora poco noto in Italia – dove, salvo smentite, non si era ancora esibita – ma le bastano pochi istanti per lasciare il segno e imporsi, forte di una padronanza del personaggio che non teme d'inserirsi nella produzione alla vigilia della prima. Anzi, strega proprio per la naturalezza disinvolta con cui si muove sul palcoscenico e nella partitura: Salome non è una Lolita turbolenta e maliziosa, Salome mostra la sua innocenza, perfino il candore spaesato nel materialismo di una reggia che le ha trasmesso una visione distorta del mondo ma non ne ha pervertito l'animo. Salome è pura, ma disorientata, incapace di comprendere e di vivere i suoi stessi sentimenti; la perdita dell'innocenza, così ben incarnata da Elisabet Strid nella Danza dei sette veli, è un trauma da cui fugge nello straniante, sublimato amplesso con l'idea di un amore diverso, vero e perduto, distrutto dalla sua stessa inesperienza. La dicotomia fra il realistico corpo decollato e la simbolica colossale testa, che emerge dal profondo cancellando sangue e necrofilia nello spettacolo di Lavia, trova perfetta rispondenza nell'interpretazione del soprano svedese. L'estasi dolorosa del monologo finale è chiara, perfino esplicita ma mai volgare: è l'akmé di un ritratto che si delinea fin dal primo ingresso della principessa e si sviluppa nel gesto, nello sguardo curioso, nel modo di sedersi scomposta, divaricare le gambe o accoccolarsi, nel canto luminoso che non s'incrina di fronte al gravoso cimento, ma si piega con intelligenza di fronte a tutte le sfumature e le esigenze della parte. La sua è un'interpretazione a tutto tondo, che vale l'ovazione convinta del pubblico e ci fa godere una volta di più dell'altro prezioso perno dello spettacolo, il podio dove troneggia Juraj Valčuha. Se possibile la sua concertazione piace ancora di più la seconda sera, ogni ascolto conferma e accresce con nuove osservazioni l'entusiasmo iniziale. La visione del personaggio sviluppata da Elisabet Strid è intensamente erotica, non barbarica, non perversa; così alla violenza barbarica non cedono mai la vivida esattezza ritmica e le sottili sfumature che Valčuha controlla e dipana ricordando sempre che Salome non è Elektra, che l'incubo dell'eros, a differenza di quello della vendetta , si insinua dolcemente fra i raggi ambigui della luna. E, fuor di metafora, si esprime in un'esecuzione eccellente, che si ascolta tutta d'un fiato delibando la cura del timbro e del fraseggio, la definizione intrigante dei temi, scontornati con maestria, la pulizia sapiente dell'articolazione da cui il dramma, in tutti i suoi sottintesi, emerge con forza e incisività. Ancor più terribile suona lo spiegarsi delle ali fantasma che opprimono il Tetrarca, ancor più ansioso l'orgasmo in crescendo della Danza, ancor più ineluttabile il pedante dibattito dei cinque giudei nel brusio della corte, ancor più sottile e lunare la follia liberatoria del finale, fra nuances delicate e traslucidi o possenti umori espressionisti.

Nuovi, rispetto alla prima, sono anche Jochanaan ed Herodias. Il profeta di Sebastian Holecek (solo un mese fa impegnato anche della produzione di Tel Aviv che vedeva Strid protagonista, il che probabilmente ha facilitato la loro complicità scenica) desta un'ottima impressione per la pienezza della voce e l'emissione rotonda che fa il paio con la forza aspra e solenne dell'accento. Lioba Braun, da parte sua, è un'Herodias sanguigna e assertiva, che il sangue regale rende spavalda più che sdegnosa.

Ian Storey si conferma Herodes corretto, distinto, potenzialmente anche più terribile di certi isterici Tetrarchi, ma nei fatti non particolarmente incisivo. Nel nugolo puntuale di ospiti, soldati e cortigiani si distinguono ancora il Narraboth, annientato da Salome per incoscienza più che per malizia, di Enrico Casari e il Paggio di Silvia Regazzo, cui spetta di evocare quasi il Pierrot di Schönberg proclamando per primo l'aspetto inafferrabile e funereo della Luna.

Successo calorosissimo, com'è giusto che sia, per una delle migliori produzioni del Comunale negli ultimi anni.

foto Andrea Ranzi - Studio Casaluci