Quadri di un’esposizione

 di Antonino Trotta

Un allestimento kolossal per un’opera colossale: con questa nuove veste, disegnata da Mario Martone e Margherita Palli, la Chovanščina di Modest Petrovič Musorgskij ritorna al Teatro Alla Scala di Milano, dopo quasi vent’anni, ancora una volta affidata all’illustrativa bacchetta di Valery Gergiev.

Milano, 3 Marzo 2019 – Chovanščina è un’opera davvero complessa: con una caparbia e consapevole volontà di voler prescindere il modello teatrale occidentale, il conflitto politico e ideologico stagliato su uno sfondo ricco di stimoli cronachistici, letterari e immaginifici, scrive la trama di un poema epico senza eroi dove a prevelare sulla psicologia del singolo è sempre quella comunità di cui ogni personaggio alla fine è mera emanazione. Sull’onda del nazionalismo romantico di cui il famigerato “Gruppo dei Cinque” è portavoce, l’opera di Musorgskij racconta l’ascesa al trono di Pietro il Grande con la conseguente occidentalizzazione della «Grande Madre Russia» e ciascuna delle tre figure dominanti in scena – Ivan Chovanskij, il Golicyn e Dosifej – si fa alfiere di quella fazione che ha intralciato il cammino, e che dunque sarà annientata, nella costruzione della nuova Russia. La narrazione sottende però una venatura piuttosto pessimistica e critica per quanto sta accadendo: in una lettera all’amico e mentore Vladimir Stasov, risalente alla stesura del lavoro in questione, Musorgskij scrive: «La terra nera manifesta la propria energia quando la ari. Per ararla puoi usare strumenti il cui materiale le è estraneo». Sebbene sia consapevole che il dissodamento della vecchia Russia prepari il suolo ad accogliere i germogli della modernità, Musorgskij fatica a nascondere – e la scrittura talvolta ruvida e spigolosa lo suggerisce – la profonda amarezza con cui si assiste a questi quadri, intrisi di violenza e desolazione.

Nel grandioso allestimento firmato da Mario Martone, d’ispirazione cyberpunk, si soccombe all’innegabile fascino delle scenografie di Margherita Palli: città in rovine, cumuli di macerie, colori spenti e glaciali come le anime che ivi si aggirano e tanti ossimori, nel contrasto tra lo sfarzo delle dimora di Golicyn o Ivan e il deserto circostante da cui emergono, che acuiscono la putrescenza di quelle insanguinate pagine di storia. All’intero dei monumentali tableaux la regia di Martone si muove in punta di piedi, attenta a non creare sovrastrutture che tendano a distogliere l’attenzione dalle intenzioni di Musorgskij stesso: del resto già il vissuto dell’orchestrazione, operata con impronte e in momenti differenti, è costellata di deviazioni e la scelta di eseguire la versione Šostakovič, più fedele delle altre al primordiale costrutto pianistico, conferma il desiderio di voler proporre la visione del compositore nella sua originalità. Ecco dunque che le condizioni di contorno più appariscenti – il sesso sadomaso durante la danza persiana, lo scrivano in sidecar, i cellulari, gli strel’cy sgozzati e filmati alla maniera delle macabre esecuzioni terroristiche (e qui, in realtà, balza subito alla mente l’ombra dell’inarrivabile produzione pesarese del Mosè in Egitto di Graham Vick) – servono principalmente come colori per dipinti altrimenti diafani. Solo l’idea di far comparire, in chiusura di ciascuna sezione, la regnante Sof’ja e i due fanciulli, Pietro e Aleksej, sembra spingersi oltre i confini del didascalismo ma il significato di queste apparizione rimane appeso al filo della libera interpretazione. Eccezionali nell’impattante effetto d’insieme – soprattutto nel finale, dove un enorme stella inghiotte il palcoscenico – le videoproiezioni sul fondale curate Umberto Saraceni, a cui si aggiungono poi i bei costumi di Ursula Patzak e lo scenografico gioco di luci di Pasquale Mari.

Se la lettura teatrale procede quindi per quadri giustapposti, quella musicale riesce a dare vita alla tele da esposizione, dimostrandosi la punta di diamante della nuova produzione scaligera. Con Valery Gergiev sul podio, i complessi dell’Orchestra del Teatro Alla Scala, in gran spolvero, acquistano un colore crepuscolare, vivido, illustrativo, capace di inspessire la statura di ciascun personaggio: nelle pagine dedicata a Marfa, punto di intersezione tra diverse realtà, ad esempio, il lirismo pieno rivela crepe in cui si infiltrano le lacrime della disillusione amorosa, mentre il manto orchestrale si affila e inturgidisce nei temi violenti e imperiosi di Ivan Chovanskij. Eccezionale la prova del Coro del Teatro Alla Scala, istruito dal Maestro Bruno Casoni che, insieme a Gergiev, riceve i più entusiasti riconoscimenti.

Ben amalgamata, nel complesso, la compagnia di canto. Mikhail Petrenko, Ivan, eccelle certamente più per capacità attoriali che vocali. Se da un lato il timbro sgraziato e l’emissione talvolta problematica si mimetizzano nel prosodiaco dettato di Musorgskij, l’interprete ben si presta, anche fisicamente, al ruolo del principe di gelo, arcigno, incoercibile. Ben altre qualità sfoggia Stanislav Trofimov, Dosifej dal materiale vocale lussureggiante. Autorevole e plastico, morbido nell’emissione, Trofimov canta con accenti maestosi e tono tribunizio e nell’ultimo atto sa nutrire l’ardente passione religiosa con pennellate di accorata beatitudine. Terzo polo dell’opposizione, Evgeny Akimov, Golicyn, tratteggia con forbito fraseggio e voce di buona proiezione tutte le luci e le ombre dell’uomo filooccidentale. Seducente e ardimentosa, a metà tra Liù e Carmen, la Marfa di Ekaterina Semenchuk si impone invece per la ricchezza del bagaglio espressivo e le generose sfumature della linea di canto. Il personaggio è magnetico, commovente, pieno di sfaccettature e inflessioni che ben affiorano dall’ottima tenuta della scena e, meritatamente, risulta alla fine la più applaudita del cast. Sergei Skorokhodov è un Andrej visivamente ancora acerbo, ma il ruolo è cantato bene. Buona la Susanna di Irina Vashchenko mentre l’Emma di Evgenia Muraveva appare un po’ sfibrata nel registro pìù acuto.

Completano correttamente il cast Maxim Paster (Scrivano), Alexey Markov (Šaklovitij), Maharram Huseynov (Pastore luterano), Lasha Sesitashvili (Varsonof’ev), Sergei Ababkin (Kuz’ka/Strešnev), Eugenio Di Lieto (Primo strelec) e Giorgi Lomiseli (Secondo strelec), Chuan Wang (Uomo di fiducia del principe Golicyn).

Applausi prolungati alla fine dell’opera, con slanci di tumultuoso apprezzamento per coro e podio.

foto Brescia Amisano