Viva Simon, del popolo l’eletto!

 di  Andrea R. G. Pedrotti

La personalità di Placido Domingo, al di là della pura aderenza vocale alla parte, conquista il pubblico viennese in Simon Boccanegra. Ottime le prove di Francesco Meli e Kwangchul Youn, ideali nei panni di Gabriele Adorno e Jacopo Fiesco.

VIENNA, 22 marzo 2019 - Prima di entrare alla Wiener Staatsoper, come capita spesso quando ci si appresta ad assistere titoli assai noti, riecheggiava nell'immago del sottoscritto il coro finale del Prologo del Simon Boccanegra; quel “Viva Simon, del popolo l’eletto!” con cui i genovesi acclamano il loro nuovo Doge.

Raramente epifania fu più profetica. Infatti, al termine dell’opera, il popolo di Vienna si è ritrovato ad acclamare Placido Domingo ancor più di quanto non fanno i genovesi col novello Doge. Abbiamo assistito a un clima di festa, quasi familiare, nel finale, con la corsa del pubblico nel passaggio centrale della platea per accostarsi il più possibile al palcoscenico del massimo teatro viennese. Tutti in piedi per il cantante spagnolo, che riceve un’ovazione finale, interminabile, degna d’un autentico sovrano.

Verrebbe da chiedersi se tanto entusiasmo sia meritato e, a costo di esser additato dai puristi della filologia musicale qual traditore della sacra corretta esecuzione, non posso che affiancarmi al pubblico di Vienna.

Non si può fare altrimenti: è vero che tale tripudio non può esimersi dall’esser contagioso, ma, cercando di esser maggiormente razionali, è innegabile riscontrare quanto il carisma di Domingo e l’intelligenza musicale siano due fra le carte vincenti della sua longevità artistica. Non ci si aspetti da lui un Boccanegra convenzionale, perché egli era e resta tenore nel colore e nell’emissione, un tenore che canta nel registro centro-grave, che aggiusta la scrittura in favore dell’attuale condizione vocale, ma che riesce a rendere il personaggio. Nel Prologo (merito anche dei complessi del teatro), appare quasi irriconoscibile, tanto da sembrare effettivamente un giovane uomo, brillante nelle movenze, come nel canto. Nel primo atto il crin torna canuto e Domingo sfrutta con intelligenza i passaggi anagrafici, oltre che emotivi ,del suo personaggio, per gestire lo strumento vocale nell’ampiezza dell’opera senza che affiorino segni di stanchezza. Il canto non è mai forzato, riservando le energie per i numeri d’assieme. Il fraseggio è curato ed espressivo, la prova d’attore (forse il suo autentico punto di forza) straordinaria.

Fra gli artisti convenzionali, interpreti dei rispettivi ruoli con un registro naturalmente conforme alla scrittura verdiana, ritroviamo a primeggiare il Fiesco di Kwangchul Youn (al debutto nel ruolo a Vienna) e il Gabriele Adorno di Francesco Meli.

Youn ha voce squillante, che esibisce nel bel timbro brunito già da “Il lacerato spirito”, eseguito con bella policromia e fraseggio accurato. Piace anche come attore; giovanile nel Prologo, consapevole nella senilità dei tre atti successivi. Perfetta la dizione italiana, in un cantante aduso principalmente alla frequentazione di teatri d’area austro-tedesca.

Francesco Meli trova in Gabriele Adorno una scrittura musicale che si adatta ottimamente alle sue caratteristiche vocali. Il tenore genovese si distingue immediatamente nei duetti con Amelia e Fiesco, fino alla bella esecuzione dell’aria “Sento avvampar nell'anima”. Il fraseggio è passionale e impetuoso, ottenuto anche sfruttando musicalmente con arte il registro centrale e privilegiando l’esuberanza giovanile all’elegia.

Eleonora Buratto (al debutto assoluto alla Wiener Staatsoper) si presenta al pubblico locale elegantissima nella figura come nel portamento. Il soprano mantovano canta bene, ma tende a forzare troppo l’emissione in “Come in quest'ora bruna”, pagando poi pegno, specialmente nel secondo e terzo atto, quando perde di brillantezza, accusando un certo affaticamento, nei gravi e nella gestione dei fiati. Il fraseggio è scolastico, viziato anch’esso dalla forzatura del primo atto. La voce è molto bella e il mezzo di qualità indiscutibile; sicuramente con una più accorta gestione complessiva il risultato potrà essere migliore in futuro.

Marco Caria è un buon Paolo Albiani. È forse un po’ grezzo come interprete e poco portato a un’emissione raffinata, ma il personaggio ben funziona, specialmente a partire dal primo atto.

Completavano il cast Dan Paul Dumitrescu (Pietro), Lukhanyo Moyake (Capitano dei balestrieri) e Lydia Rathkolb (un’Ancella di Amelia).

Assai interlocutoria la concertazione di Philippe Auguin, che nella lettura di Giuseppe Verdi, conferma le impressioni date nel Macbeth parmigiano [leggi a recensione]. Innegabile la bellezza della linea musicale impartita dal concertatore nel terzetto del secondo atto “Perdon, perdono, Amelia”. Tuttavia, manca una linea musicale convincente; delude assai nel finale del Prologo, per riprendersi grazie all’incontenibile magnificenza delle sonorità dell’orchestra della Wiener Staatsoper, mistica e maestosa al tempo stesso nell’intensità del finale primo. Per quanto la linea del direttore non fosse entusiasmante, tuttavia riescono a esserlo i solisti dell’organico, capaci di travalicare le vette del sublime quando gli ottoni, nel secondo atto, donano al pubblico maiuscola prova di sé.

Il coro della Wiener Staatsoper, diretto da Thomas Lang offre una prova in crescendo, che culmina nell’eccellenza (attoriale a canora) del Finale primo, mistico e maestoso, al pari del complesso orchestrale.

La regia di Peter Stein prevede delle scene stilizzate, composte da moduli che, nell’intenzione, sveltiscano la successione drammaturgica dei numeri chiusi. La messa in scena punta particolarmente sui chiaroscuri dati dal disegno luci, mentre la recitazione e alcune soluzioni sceniche appaiono sostanzialmente convenzionale, come nelle immagini del coro che addita Paolo Albiani creando un fuoco prospettico su di lui, o che, nel finale, si stringe in cerchio attorno al cadavere del Boccanegra, innalzato sovra le teste di ognuno. Nel complesso l’allestimento, pur senza apparir geniale, funziona.

Le scene erano di Stefan Mayer, i tradizionali costumi di Moidele Bickel.

foto Wiener Staatsoper / Ashley Taylor