Il cinema, prima e dopo

 di  Antonino Trotta

Dopo la rinuncia all’attesissimo Sunset Boulevard, il Teatro Carlo Felice di Genova corre ai ripari con l’interessante dittico Rapsodia Satanica/Gianni Schicchi, forte dell’ottima concertazione di Valerio Galli. Dall’opera di Puccini spicca, nel ruolo eponimo, Fabio Maria Capitanucci.

Genova, 13 Aprile 2019 – Nell’aggrovigliata matassa di mode e tendenze che dominano le programmazioni del mercato operistico, quella di cucire assieme dittici spinti oltre l’imperituro sodalizio della coppia Cavalleria Rusticana/Pagliacci – tra l’altro, prossimamente, in scena proprio a Genova – può essere un’operazione assai riuscita, per due ragioni. In primis, e questo spiace constatarlo, il titolo più noto sa fare da traino alla più sfortunata delle due opere; in secundis, l’abbinata, quando non finisce col plasmare un Frankenstein teatrale, è in grado di rivelare percorsi e sottotesti anche interessanti. E interessante è parsa la proposta del Carlo Felice che, dopo un qui pro quo burocratico, sopperisce alla defezione dell’attesissimo Sunset Boulevard di Andrew Lloyd Webber con un’accattivante diade: Rapsodia Satanica di Mascagni e Gianni Schicchi di Puccini. Come si dice, la necessità aguzza l’ingegno, e qui l’ingegno, pur nell’economia dei mezzi, s’è ben ingegnato. Da un lato la musica di Puccini, per taglio drammaturgico e abbondanza di primi piani anche laddove il dramma si fa più leggero, precorre i tempi dell’arte cinematografica; dall’altro Mascagni, musicando il film di Nino Oxilia, si avvicina al mondo del maxischermo, seppur con riserbo, ma conserva lo spessore della scrittura e colora la pellicola vergine meglio di come i tecnici del fotogramma abbiano fatto – a mano – nei primi esperimenti di technicòlor. Così, concentrandosi sulla traiettoria di una e l’origine dell’altra, si potrà ricostruire come, nei primi anni del Novecento, sia avvenuto il passaggio di consegne, nell’intrattenimento popolare, dall’opera al cinema.

Certo il pomeriggio, inauguratosi non nel migliore dei modi – i soliti problemi con le videoproiezioni, che francamente,sembrano qui la regola, ritardano l’inizio di un abbondante quarto d’ora –, avrebbe avuto molto meno da raccontare senza la forbita concertazione di Valerio Galli, bacchetta di riferimento in questo repertorio e timoniere sicuro dei complessi dell’Orchestra del Carlo Felice, in gran spolvero. Che si tratti dell’intensa Rapsodia Satanica o dello sfaccettato Gianni Schicchi, il podio non perde mai né grinta né levatura. In entrambe le opere, Galli mescola ad arte le pennellate romantiche, le impennate istrioniche e le ripiegature drammatiche che nelle due partiture si avvicendano in un flusso senza tregua. Il gusto della misura, la certosina esplorazione timbrica e soprattutto il ricercato dosaggio di volumi, intavolati in un fraseggio sempre esaustivo e strumenti di una direzione appassionata e maestosa, dimostrano quanta aristocratica bellezza si possa celare nei capolavori dalle sonorità più grasse e succulente.

Allo stesso modo la regia firmata da Rolando Panerai per Gianni Schicchi, con costumi di Vivien A. Hewitt e scenografie di Enrico Musenich, attesta ancora uno spiccato equilibrio nell’articolazione della narrazione. Distante da ogni eccesso grottesco ma senza colpi di coda, Panerai cura con minuziosa attenzione la gestualità di ogni personaggio e profuma il dramma comico con una sapiente quantità di spezie. Per il celebre baritono dunque, il filone della tradizione, su cui sicuramente insolca questa rappresentazione, è il laboratorio in cui condurre un lavoro di puntuale cesello. Simpaticissima, ad esempio, è la scena dell’occultazione del cadavere, maldestramente riposto in un baule con tanto di braccio penzolante rimasto fuori all’arrivo del medico.

Dalla seconda compagnia di canto, protagonista della recita pomeridiana, emerge il Gianni Schicchi di Fabio Maria Capitanucci, la cui splendida vocalità, ancillare a un fraseggio scolpito e a un’emissione sicura ed omogenea, è ben affila dal carisma dell’interprete. Pur con qualche suono opaco nel passaggio in acuto, Benedetta Torre, grazie anche a una fisicità angelicata, incarna la vena tenera e patetica di Lauretta, inequivocabile eroina pucciniana, che canta esibendo un timbro suadente e un’ottima capacità di sfumare. Sonia Ganassi è l’inossidabile artista che tutti conosciamo: la tessitura di Zita non rende giustizia alla cantante, ma la teatralità è spiccata, l’accento opulento e il risultato garantito. Censurabile il Rinuccio di Manuel Pierattelli, corretto il ricco comprimariato: Aldo Orsolini (Gherardo), Francesca Benitez (Nella), Michela Gorini (Gherardino), Enrico Marabelli (Betto di Signa), Luigi Roni (Simone), Marco Camastra (Marco), Elena Belfiore (La Ciesca) Matteo Peirone (Maestro Spinelloccio/Ser Amantio di Nicolao), Davide Mura (Pinellino), Giuseppe Panaro (Guccio). Platea quasi deserta. Peccato.

foto Marcello Orselli