Fascino antico

 di Andrea R. G. Pedrotti

Le voci di Elena Guseva, Gregory Kunde ed Ekaterina Gubanova, con la concertazione sempre incisiva di Marco Armiliato, animano l'allestimento di Aida firmato da Nicolas Joel all'insegna della tradizione.

VIENNA, 22 giugno 2019 - In Aida esiste un momento centrale, quello che conferisce significato a tutta l'opera. Tutta la scena del giudizio di Amneris, infatti, è il sunto di quel disordine interiore che invita la principessa egizia a causare la condanna del non troppo arguto Radames.

Dal punto di vista drammaturgico e musicale tale scena è la rappresentazione perfetta del concetto di Es, Ich e Über-Ich, dove l'Es è dato dall'orchestra con l'intensità dei bassi e le figure degli archi, l'Ich è il canto di Amneris medesima e l'Über-Ich è rappresentato dall'autorità dei sacerdoti e dell'Egitto, di cui il padre di Amneris è personificazione, della cui capitale (Menfi) Ptah è divinità creatrice e guida.

Ciò che si deve ottenere da questa scena è il senso di solitudine e di intimità di una donna che è anche principessa, schiacciata fra la sua pulsione interiore e l'ineluttabile compiersi della fato che si manifesta, ossessivo, nella frase “Il traditor morrà”, ripetuta dal coro. Il fatto stesso che Amneris non interagisca con il coro medesimo è fondamentale, perché spezzerebbe la magia del tormento creata da Giuseppe Verdi. Questo ha funzionato e questo era il momento fondamentale che determina la riuscita complessiva di Aida in maniera sostanziale.

Il resto della produzione pare richiamare i grandi kolossal degli anni '50 e '60, inserendo la recitazione fra gli elementi architettonici della città di Menfi, specialmente il grandioso complesso monumentale ivi dedicato a Ptah, il Hut Ka Ptah. Sovente lo stile della messa in scena rammenta una celebre pellicola del 1962 ambientata non più nel basso Egitto, ma nella capitale dell'alto Egitto, Tebe. Questo celeberrimo, quanto sottovalutato, film, Totò contro Maciste, ricorda per certi versi la trama di Aida, con la minaccia portata dallo straniero alla valle del Nilo e l'utilizzo di nomi dal sapore antico, ma privi di storicità. Sicuramente in Aida la collocazione storica nell'Antico Regno aiuta a stimolare la fantasia, considerato l'alone di mistero che circonda le dinastie che si succedettero nel III millennio a.c. (precisamente dal 2700 a.c. al 2192 a.c.) e ressero le sorti di un'epoca che, ancor oggi, richiama alla leggenda. Una produzione che si concentra sull'iconografia, ma, in quest'ottica, sufficientemente efficace.

Ekaterina Gubanova (Amneris) esprime e sublima benissimo i sentimenti della principessa egizia, attraverso un canto raffinato, morbido nell'emissione, uniforme nei registri e luminoso in acuto. Il fraseggio è appassionato e la recitazione elegante, come si confà al rango del personaggio.

Ottimo anche il sontuoso Radames di Gregory Kunde, al quale manca solo l'esecuzione del Sib “morendo” come vorrebbe Verdi, per rendere la sua prova priva di macchia alcuna. Il fraseggio è curato, lo squillo imperioso e la freschezza vocale fuori dal comune, anche senza considerare l'anagrafe, nonché la lunga carriera, del tenore statunitense.

Migliore del cast risulta, tuttavia, Elena Guseva (Aida), artista purtroppo sconosciuta al pubblico italiano, ma ben nota ai palcoscenici dei maggiori teatri lirici internazionali, la quale si distingue per la morbidezza d'emissione, la sicurezza tecnica e la bellezza del timbro. Bello e sicuro il do in “Oh, cieli azzurri”, prezioso coronamento a una linea musicale e un fraseggio ideali per il personaggio verdiano. Perfetta la dizione italiana, tanto da farla sembrare una madrelingua.

Simone Piazzola (Amonasro) si conferma buon fraseggiatore e artista tecnicamente preparato; purtroppo lo strumento vocale appare logoro, evidenziando un certo affaticamento (non una cattiva gestione) dei fiati, che comportano un'emissione, per quanto curata, talvolta calante. Gran merito va al concertatore, Marco Armiliato, che lo segue con particolare attenzione, staccando dei tempi che non lo costringano a uno sforzo eccessivo, in particolar modo sull'attacco della frase “Tu rammenti che a noi l'egizio...” nel terzo atto, che viene eseguita in maniera meno marziale e autoritaria del consueto, ma comunque con resa convincente.

Convince pienamente il Ramfis di Jongmin Park, mentre appare più interlocutoria la prova nel messaggero di Lukhanyo Moyake. Completavano il cast il Re di Peter Kellner e la sacerdotessa di Mariam Battistelli.

Come sempre Marco Armiliato si dimostra una certezza del podio, portando a compimento una concertazione convincente dal punto di vista interpretativo e degna di lode per l'attenzione agli equilibri con il palcoscenico e al respiro dei cantanti. Molto bella a sua direzione dei ballabili e imperiosa quando fossero gli ottoni e le percussioni a essere coinvolti.

Bene il coro (ancora una volta migliore nella componente femminile) diretto da Thomas Lang e il corpo di ballo impegnato nelle coreografie di Jan Stripling, ben inserite nella regia di Nicolas Joel. Le scene erano di Carlo Tommasi.