Egitto o non Egitto?

 di Stefano Ceccarelli

Il Teatro dell’Opera di Roma dà avvio alla stagione estiva di Caracalla con una mediocre produzione di Aida. La regia di Denis Krief non convince per molti aspetti, come pure parte del cast dei cantanti.

ROMA, 4 luglio 2019 – L’Aida di Giuseppe Verdi è prescelta quest’anno per aprire il festival lirico estivo delle Terme di Caracalla. L’opera, forse la più ‘caracalliana’, si presta benissimo ad uno scenario così suggestivo come quello delle rovine delle terme antoniniane: inoltre, il pubblico romano l’attendeva a Caracalla da un decennio.

Insomma, tutte le premesse erano buone per un ritorno trionfale del capolavoro verdiano nel suo luogo, per così dire, naturale. Eppure, un impianto registico-scenografico del tutto inappropriato e un cast di altalenante valore condannano questa produzione a una scomoda mediocrità. Regia, scene, costumi e luci sono firmati da Denis Krief: si tratta proprio del punto di maggior debolezza dell’intero spettacolo. Le scene sono poverissime: sono presenti tre grandi strutture semoventi (una piramide e due grosse ‘pareti’), un cubo ligneo su cui scorrono dei fondali dipinti e qualche altro elemento cursorio. L’idea di fondo di Krief, da lui stesso delineata nel programma di sala, si apre con una domanda a mio avviso del tutto insensata: può esistere un’Aida senza l’Egitto? A mio avviso, semplicemente no: per Krief, invece, l’Egitto è, volendo, eliminabile, giacché mero couleur locale, semplice orpello di fondo per una storia la cui essenza potrebbe viversi a prescindere dal ‘contorno’. Leggendo le sue note (pp. 85sgg. del programma di sala) si rimane un po’ disorientati. Sembra, infatti, che Krief abbia concesso l’Egitto al pubblico romano solo per mere esigenze di tradizione performativa, «non volendo deludere il pubblico che si aspetta l’Egitto» (p. 86); e insinua addirittura che Verdi considerasse l’Egitto stesso del tutto secondario (p. 85), pur conscio della nascita di Aida come opera dal grande peso celebrativo: molto meno politico, però, benché Krief insista su questo punto. Queste idee di Krief sono, naturalmente, del tutto sconfessate dalle parole stesse del compositore, che si trovano – guarda caso – in appendice al medesimo programma di sala, dov’è presente una selezione dell’epistolario verdiano e non intorno ad Aida, creando un curioso dilemma nel lettore più attento. Verdi, infatti, scrive a Du Locle (1870, lettera citata a p. 126 del programma di sala): «ho letto il programma Egiziano [sic!]. È ben fatto; è splendido di mise en scene». Le sue vive parole non lasciano adito a dubbi: Aida deve rimanere in Egitto. Registicamente, poi, si può operare come si vuole; trasfigurare e trasformare l’elemento egizio, ma senza negarlo: questo no.

Krief sceglie, quindi, di virare su un gusto etno-chic, apprestando costumi semplici e dai colori sgargianti: il risultato, però, lascia alquanto a desiderare, soprattutto per il numero esiguo di cambi d’abito dei personaggi principali (Amneris e il Faraone in particolare). A livello scenografico, poi, gli elementi di cui parlavo prima vengono mal gestiti. Sul palco, infatti, ci sono sempre attrezzisti che spostano questi blocchi scenici semoventi, a tratti senza una logica necessità di fondo; peraltro, questi blocchi, che creano (una volta uniti) una sorta di parete spoglia e aurea, coprono lo scenario delle rovine antoniniane, che sarebbero potute perfettamente fare al caso di un fondale scenico ‘naturale’ per Aida – come del resto è sempre avvenuto in questo particolare festival estivo. La resa, poi, di alcune scene d’interno è eccessivamente naïf; mi riferisco, per esempio, al tempio di Vulcano, immaginato dentro un cubo ligneo, di pur modeste dimensioni, con al fondo un bozzetto dello stesso – l’effetto del braciere con il fuoco è per effettivamente suggestivo. Le scene nilotiche, invece, presentavano una bella idea, quella di cespugli di giunchi palustri, che però è relegata al solito spazio all’interno del cubo: però mi chiedo se porre qualche cespuglio qua e là sul palco, magari con la piramide al lato e lo sfondo delle rovine, non sarebbe stato più economico ed efficiente. Una scenografia che mi è parsa, insomma, disorientante e che sorregge una regia che non lo è da meno. Vorrei qui citare solo alcuni casi eclatanti. La celebre marcia trionfale è resa, nella più totale immobilità del coro, con un gruppo di ballerini che girano ripetutamente attorno al cubo ligneo, variando qualche figura; nella scena finale, Aida e Radames si trovano dentro la piramide, che è però orientata affinché una buona parte del pubblico (di destra, se si guarda il palcoscenico), non possa assolutamente vederli; nella scena del giudizio, Amneris si trova dentro uno degli oggetti semoventi, che rappresenta una scalinata, in posizione più bassa rispetto a Radames, che è un condannato e non può stare più in alto di una principessa. Insomma, la prossemica dei personaggi è lasciata perlopiù all’arbitrio degli stessi, con risultati altalenanti. Krief, poi, fra le idee per quest’Aida, inserisce anche un filone metateatrale che si concreta nel palco reale dipinto da cui il Faraone e Amneris assistono alla sfilata, come pure nei fondali del cubo che rappresentano bozzetti di scena: ma a cosa conduce quest’accenno di metateatro mi è poco chiaro nell’economia generale del tutto. Mi è poco chiaro, inoltre, il vessillo del trionfo sugli Etiopi reso da Krief come una bandiera italiana della I Guerra Mondiale (se ho ben visto: ne manca spiegazione nel programma di sala): quale messaggio politico vuole mandarci? Una nota di merito, invece, per il corpo di ballo, che allieta il pubblico durante la scena del trionfo e la danza degli schiavi mori (II atto): le coreografie sono di Giorgio Mancini.

Per quanto riguarda la facies musicale, purtroppo, non si è molto più fortunati. Certamente – questo mi sembra innegabile – l’orchestra dà del suo meglio per eseguire l’accompagnamento; il direttore, Jordi Bernàcer, ha buona mano per qualche passaggio delicato, ma tiene un’agogica alle volte troppo larga, in generale poco incisiva in taluni momenti di più concitata energia teatrale; e, soprattutto, in diverse occasioni (soprattutto quando la sezione si fa impervia ritmicamente) non comunica bene con il palco. Il coro dà una delle peggiori performance cui mi sia dato di assistere a Caracalla: difficili nei movimenti prossemici, i coristi e le coriste in più punti appaiono sfibrati, con intonazioni periclitanti. Il cast è di qualità altalenante. Gabriele Sagone canta un discreto Re, ma senza rimanere particolarmente impresso. Judit Kutasi esegue un’Amneris vocalmente convincente. La Kutasi è un mezzosoprano dalla voce compatta e potente, benché monotona, a tratti, nella resa dei particolari del personaggio (come l’Amneris intimistica della scena I dell’atto II): forse avrebbe potuto conferire una maggiore tragica profondità nella scena del giudizio (IV. 1), ma la qualità interpretativa è buona. Come pure è buona l’Aida di Vittoria Yeo, che mostra un fraseggio ragguardevole. La Yeo ha una voce calda, che sa ben utilizzare nelle messe di voce e nei passaggi più particolareggiati, perdendosi forse un po’ in potenza nelle scene corali. Come che sia, è la migliore cantante sul palco, a giudicare dalla sua performance. Fra i momenti più piacevoli della sua esibizione c’è «Oh, patria mia, mai più ti rivedrò!». Il Radamès di Alfred Kim è affetto da una terribile pronuncia italiana e da diversi (e continui) errori nella dizione del libretto: il suo mezzo vocale, ancorché potente, non è sempre centrato; l’interprete, inoltre, presenta un timbro granuloso. Oltre a errori di vario genere, per Kim si registra anche l’assenza di profondità nella resa del personaggio, che rimane un insieme di note (alcune, per carità, ben porte). Di questo fatto è sintomatica, ad esempio, già la «Celeste Aida, forma divina»: poche sfumature, voce monocorde, tutta tesa all’acuto (e il si bemolle finale, invece di essere eseguito pp morendo come prescrive la partitura, è ben ‘sparato’). L’Amonasro di Marco Caria è vocalmente poco potente, ma di buona presenza: peccato qualche passaggio a vuoto nel duetto con Aida (III atto). Il Ramfis di Andrian Sâmpetrean è buono vocalmente, ma poco statuario e cavernoso: si registra, inoltre, un vistoso passaggio a vuoto all’inizio del III atto. Domingo Pellicola canta bene il ruolo del messaggero, forse eccessivamente rallentato da una direzione troppo lassa; Rafaela Albuquerque canta una buona Gran Sacerdotessa.

In conclusione, l’Opera di Roma mette in campo una produzione mediocre sotto molti aspetti: un vero peccato, perché a Caracalla Aida potrebbe far emergere tutto il suo potenziale. Anche il pubblico se n’è accorto, di cui una buona parte, in fretta, ha abbandonato gli spazi, quasi senza attendere i rituali applausi.

foto Yasuko Kageyama