Allievi e Maestri

 di Joseph Calanca

Per l’ultimo appuntamento lirico prima della pausa estiva, il Teatro alla Scala presenta un singolare dittico composto da Prima la musica e poi le parole e Gianni Schicchi. Al fianco degli studenti del Progetto Accademia, Ambrogio Maestri si conferma punto di riferimento nel repertorio buffo. Ma il vero trionfatore della serata è Woody Allen che porta a Milano quella che ad oggi è la sua unica regia di un’opera lirica.

MILANO, 6 luglio 2019 - Da un’enorme volta bianca scendono diciotto candelieri, indispensabili per fornire la giusta illuminazione a un ambiente tanto vasto. Gli alberi di arancio amaro, addossati in file e file sulla lunga parete di fondo, formano un rigoglioso e profumato scenario naturale. Al centro di questa foresta addomesticata siedono, a una tavola riccamente imbandita, uomini e donne alternati in base al sesso. Non bastassero le voluminose gonne a panier, le parrucche e i vezzosi cappelli a identificare lo status dei personaggi e datare la scena, una scritta è pronta a venirci in soccorso: “La festa nell’Orangerie di Schönbrunn, 7 febbraio 1786”. Risaliamo con lo sguardo sull’illustrazione presente in questa stampa ritrovata pochi anni fa e conservata alla Biblioteca dell’Università di Vienna e concentriamoci sulle estremità: due palcoscenici si fronteggiano. Ecco, è su queste tavole che si consuma un capitolo della più celebre (e romanzata) rivalità della storia della musica classica. Per celebrare la visita in città della sorella Maria Cristina, accompagnata dal marito Alberto di Sassonia, l’arciduca Francesco Giuseppe commissiona infatti due nuove composizioni a Wolfgang Amadeus Mozart e Antonio Salieri. Il terreno di scontro è il medesimo, vale a dire la narrazione salace e grottesca della genesi di un’opera lirica e delle sempiterne bizze tra cantanti, ma i risultati diametralmente opposti. Da un lato, il Singspiel tedesco esemplificato da Der Schauspieldirektor, dall’altro la tradizione operistica italiana di Prima la musica e poi le parole.

Protagonisti del divertimento teatrale di Salieri sono Un Poeta e Un Maestro di Cappella ai quali, tale conte Opizio, affida la creazione di un nuovo lavoro da terminare in soli quattro giorni. Alla disperazione del Poeta il Maestro risponde serafico che pagine e pagine di ottima musica sono già pronte, basterà confezionare un libretto che vi si adatti. Un po’ come creare un abito e poi l’uomo a cui farlo indossare, chiosa sardonico il Poeta. Compaiono quindi i due soprani previsti (o meglio, raccomandanti) per lo spettacolo e dopo aver dato saggio delle loro versatili qualità canore e avendoci regalato il delizioso bisticcio d’ordinanza, tutti possono alacremente mettersi al lavoro per completare l’opera nei tempi richiesti.

Un soggetto piuttosto esile in cui tuttavia si inseriscono abbondanti riferimenti musicali e parodie delle convenzioni del teatro d’opera di moda a Vienna in quegli anni. Una lingua, in sostanza, di difficile comprensione per lo spettatore contemporaneo. Quanti sono i fortunati che, in questo inizio di millennio, non dico conoscono, ma hanno almeno mai sentito nominare il Giulio Sabino di Giuseppe Sarti nelle cui arie si cimenta Donna Eleonora? E come far sorridere il pubblico odierno, così come per certo avranno sogghignato i nobili ospiti dell’arciduca, quando il Maestro nomina il Marchesino di fronte a Donna Eleonora, ossia a quella Anna Selina Storace che, proprio a causa di un diverbio con il celebre castrato (pare che lo imitasse molto bene), pochi anni prima fu cacciata da una produzione fiorentina di Castore e Polluce?

Il difficile compito di rispondere a queste domande, facendosi interprete e traduttore del testo è affidato a Grischa Asagaroff. Che sceglie la strada più facile, si attiene ai semplici fatti riportati nel libretto di Giambattista Casti, finendo involontariamente per sottolinearne la modestia drammaturgica. La “camera in casa del Maestro di cappella con cimbalo da una parte, spinetta dall’altra e vari mucchi di spartiti e di carte di musica” è quindi sintetizzata dalla scenografia di Luigi Perego che riempie il palcoscenico del Piermanini di strumenti musicali dalle dimensioni giganti a formare il mobilio della casa che si rivela, di volta in volta, libreria, seduta o armadio. È qui che si muovono, abbigliati in costumi vagamente settecentesci (anch’essi di Perego) gli allievi dell’Accademia del Teatro alla Scala preparati da Eva Mei. Sono Maharram Huseynov (Un Poeta), baritono dal fraseggio intelligente e molto a suo agio anche nell’utilizzo del falsetto, la brillante Francesca Pia Vitale (Tonina) e Anna-Doris Capitelli, che affronta impavida le colorature di Donna Eleonora. Ambrogio Maestri si cimenta per la prima volta, ottenendo un risultato davvero interessante, in una partitura del Settecento, affrontando la parte del Maestro di cappella scritta per Francesco Benucci, basso sulla cui voce Mozart modellerà il Figaro delle Nozze e il Guglielmo del Così fan tutte.

Dopo l’intervallo il sipario si apre su Firenze. La casa di Buoso Donati sembra non stare in condizioni molto migliori del suo proprietario: i muri sono scrostati e i vetri delle finestre in frantumi. A cominciare dalla veduta della città che, come un’enorme fotografia Alinari, riempie interamente il fondale, passando poi per gli splendidi costumi in stile anni Cinquanta creati, così come le scene, da Santo Loquasto (candidato tre volte all’Oscar mica per nulla), tutto è in bianco e nero. Perché Woody Allen, chiamato nel 2008 dalla Los Angeles Opera a firmare la sua prima regia d’opera si ispira a ciò che ama di più: il cinema. E, trattandosi di Gianni Schicchi, si rivolge a quello italiano e ad alcuni dei suoi film preferiti in assoluto: l’impietoso neorealismo di Vittorio de Sica in Ladri di biciclette e Sciuscià e la caratterizzazione dei personaggi di Fellini, spietata ma irresistibile. Rispettoso dello splendido libretto di Giovacchino Forzano, il regista si concentra sul ritratto di ogni singolo personaggio. Cominciando dal protagonista, mafioso con baffetti e completo gessato da manuale, e senza tralasciarne nessuno, neppure Pinellino e Guccio chiamati a far da testimoni durante la dettatura delle “nuove” ultime volontà… nonostante (e probabilmente proprio perché) siano uno cieco e l’altro narcolettico. Tante sono le trovate genuinamente esilaranti, come l’idea di nascondere il vero testamento all’interno di una pentola di spaghetti oppure il momento in cui i parenti, scacciati di casa dal nuovo proprietario, sfogano la loro avidità arrivando ad accaparrarsi perfino le medicine, il pitale o le lenzuola in cui è appena spirato Buoso Donati.

Rispetto all’edizione losangelina, nata come racconta lo stesso Allen dalle insistenze di Plácido Domingo e già vista in Italia dieci anni or sono al Festival dei Due Mondi di Spoleto, due modifiche sostanziali sono state apportate in questa versione del Teatro Alla Scala, ripresa con il supporto di Kathleeen Smith Belcher. Innanzitutto spariscono quei titoli di testa che, proiettati con l’accompagnamento di Funiculì funiculà, cadevano un po’ nel cliché pizza/mandolino ma che comunque ribadivano l’ispirazione cinematografica e italiana della lettura del regista: “Gianni Schicchi – con Tonio Salmonella, Oriana Fellatio, Caesare Insalata, Stefina Moltozoftica – sceneggiatura: Vitello Tonnato”. L’altra alterazione, decisamente più importante, avviene nel finale da cui Allen elimina la scena in cui Zita rientra in casa per accoltellare il povero Gianni Schicchi.

Falstaff di riferimento di questi ultimi anni, Ambrogio Maestri dimostra, per imponenza vocale, presenza scenica e verve comica, di trovarsi perfettamente a suo agio anche nell’unica opera buffa di Giacomo Puccini. La sua figliuola, che nella visione del regista si trasforma in donna particolarmente volitiva, una specie di Anna Magnani che nasconde un coltello nel reggicalze perché comunque non si sa mai, ha la “voce fresca” (come prescrive Puccini) di Francesca Manzo e il grosso merito di rendere "O mio babbino caro" con la necessaria dose di ironia.

Se destano qualche perplessità la dizione un po’ arruffata, a fronte di uno strumento comunque notevole, di Daria Cherniy (Zita) e gli acuti leggermente opachi di Chuan Wang (Rinuccio), il resto della compagnia si segnala per l’ottimo livello complessivo. A tutti va il merito del buon esito dell’atto unico, a cominciare da Caterina Piva, che crea una Ciesca appariscente e catalizzatrice, e proseguendo, senza voler stilare una spiacevole classifica, con Hun Kim (Gherardo), Marika Spadafino (Nella), Lasha Sesitashvili (Betto di Signa), Eugenio Di Lieto (Simone), Giorgi Lomiselli (Simone), Ramiro Maturana (Maestro Spinelloccio), Jorge Martínez (Ser Armando di Nicolao), Hwan An (Pinellino), Maharram Huseynow (Guccio), fino al giovane Gianluigi Sartori (Gherardino).

Non solo il palcoscenico, ma anche la buca ospita gli studenti della prestigiosa Accademia Teatro alla Scala, e la sua Orchestra guidata con passo deciso e sostenuto da Ádám Fischer per forza di cose risulta più disinvolta di fronte alla partitura di Salieri che alla prese con la complessa scrittura pucciniana.

Un caldo e sincero successo (con tanto di sempre splendida Eva Mei in piedi al centro della platea ad applaudire i suoi meritevoli allievi) ha salutato gli interpreti dei due atti unici. E quando, sfidando ogni pronostico, l’ottantatreenne Woody Allen è apparso sul palcoscenico, una vera e propria ovazione è esplosa dal composto pubblico milanese. Con annessa selva di smartphone a documentare l’evento.

foto Brescia Amisano