La tinta sospesa

di Roberta Pedrotti

Successo per l'inaugurazione del Festival Verdi 2019 con una produzione dei Due Foscari in cui si fanno apprezzare soprattutto Vladimir Stoyanov e Stefan Pop, mentre non spicca il volo la concertazione di Paolo Arrivabeni e suscitano più d'una perplessità Maria Katzarava, Giacomo Prestia e la regia di Leo Muscato.

PARMA, 26 settembre 2019 - Nella continua ricerca di Verdi drammaturgo, I due Foscari sembra un saggio sull'idea di tinta, di quel carattere - che forse Rossini in altra temperie estetica avrebbe chiamato "atmosfera morale" - peculiare dell'opera in cui trovano senso le note "belle o brutte che siano". Effettivamente, nei Due Foscari non accade nulla, o quasi. È una situazione, un sentimento che si dilata nell'attesa della catastrofe, in un'ossessione sviluppata attraverso temi conduttori: l'ansia di Lucrezia, il dolore impotente di Foscari padre, lo scoramento nostalgico di Foscari figlio, la macchina inesorabile del potere nei tribunali veneziani. Un'immobilità claustrofobica senza via d'uscita, con un destino già scritto ed evidente fin dalla prima scena, si dipana in tutte le luci, le ombre, le gradazioni che la tinta assume, costruendo una drammaturgia per certi versi sperimentale, eppure formalmente rigorosissima là dove si tratti di equilibrare i numeri fra i personaggi: una perfetta liaison de scènes nel secondo atto, in una progressione continua di aria-duetto-terzetto-quartetto prima del concertato finale; un terz'atto in cui i personaggi principali sfilano ciascuno con un'aria di congedo. 

Il labirinto angoscioso in cui l'attesa consapevole si avvolge su sé stessa, gioiello di uno dei più grandi geni del teatro - non solo musicale - di tutti i tempi, merita di inaugurare in gloria il Festival Verdi, e lo fa nell'edizione critica di Andreas Giger, stampata appena nel 2017 da Casa Ricordi con l'University of Chicago Press (l'ateneo di Philip Gossett resta un punto di riferimento per lo studio dell'opera italiana). Il fascino dell'opera può diventare, però, anche una trappola: si ha, per esempio, la netta impressione che Paolo Arrivabeni tenda ad adagiarsi proprio sull'identità di tinta, sull'ossessiva immobilità drammaturgica, che si traducono in un incedere cupo e corrusco che risulta fin troppo omogeneo, senza che nella foschia della laguna s'intravedano sagome e bagliori, senza che si inneschi il claustrofobico meccanismo verdiano, così frastagliato fra conati di ribellione, introspezione psicologica, slancio poetico e sconsolata sconfitta. Ancor più rinunciatario appare il lavoro di Leo Muscato, che sembra ripetere, fra nebbie e fasci di luce (scene di Andrea Belli, luci di Alessandro Verazzi), cliché visivi ricorrenti nei suoi spettacoli, mentre da Francesco Foscari ad alcuni elementi del coro si evoca la fisionomia di Giuseppe Verdi e le guardie della Serenissima si presentano come gli austriaci di Senso, in un'opera in cui di risorgimentale, peraltro, ci sarebbe ben poco fuori da luogo comune. L'azione è sostanzialmente limitata al minimo: arie in proscenio, coro ben schierato, recitazione fra il minimalista e il volenteroso. Quando, poi, Muscato vuol farci ricordare la sua firma, aggiunge un'apparizione del tutto superflua dello spettro del Carmagnola che fa la sua passerella nei Piombi, un finale che più manierato non si può, con il doge morente inquadrato da due fari e da uno specchio. 

Il meglio arriva, dunque, proprio dai protagonisti eponimi. Vladimir Stoyanov si trova sempre perfettamente a suo agio nella tessitura e nella scrittura verdiana, canta con franchezza e accorta misura espressiva, introverso e dignitoso fino allo sfogo più accorato del finale, in cui, senza trascendere, la disperazione repressa vibra comunque più dello sdegno del patrizio veneziano. Stefan Pop è ammirevole per il trasporto e il vigore con cui dà vita al suo Jacopo Foscari, per una generosità che, anche a costo di sacrificare la levigatezza dell'emissione, non lascia indifferenti e gli vale meritati applausi. Se Francesco Marsiglia (Barbarigo), Erica Wemeng Gu (Pisana), Vasyl Solodkyy (Fante) e Gianni De Angelis (servo) sono impeccabili nella parti di fianco, suscitano perplessità la Lucrezia Contarini di Maria Katzarava e lo Jacopo Loredano di Giacomo Prestia. La prima, dal timbro piuttosto opaco e frusto, non appare all'altezza di una parte improba, che la mette in affanno per l'estensione e per le agilità, abborracciate alla meno peggio. Ben altra impressione ci aveva destato due anni fa nella parte per lei più comoda e di certo meglio rifinita anche nella produzione, di Lina in Stiffelio [leggi la recensione]. Loredano, poi, è un personaggio interessante proprio nel suo essere sfuggente, un'ombra che si aggira nel Consiglio dei Dieci macchinando la rovina dei Foscari per ragioni che trapelano in maniera ellittica: può essere un comprimario, ma anche l'occasione di un cameo per un cantante di carisma ed esperienza. Questo ci aspettavamo da Prestia e in questo ha deluso, poco incisivo nel canto e nel gesto, anche al netto di qualche momento ridicolo richiesto da Muscato (la rissa tentata con Jacopo, trattenuti dalle guardie). Non delude, invece, il Coro del Regio, preparato da Martino Faggiani, che qui è un vero e proprio fondamentale personaggio, incarnando i Dieci e il Senato. Nondimeno, ben figurano la Filarmonica Arturo Toscanini e, per la banda fuori scena, l'Orchestra Giovanile della Via Emilia, felice coinvolgimento di nuove leve e forze locali in un festival che, al di là degli esiti diversi dei singoli spettacoli, sta sempre più consolidando la propria identità.