All'ombra di Gioachino

di Roberta Pedrotti

Pietro il Grande kzar delle Russie è senz'altro un'opera di apprendistato e di maniera per un giovane Donizetti non ancora smaliziato e alle prese con un libretto poco brillante. Il festival bergamasco, getta comunque giustamente luce anche su questo titolo giovanile in una produzione di tutto rispetto.

BERGAMO 15 novembre 2019 - Un'opera come Pietro il Grande kzar delle Russie è un esempio lampante di cosa significhi un festival, al di là della ricerca sull'interpretazione, al di là dei capolavori che tornano alla luce. Pietro il Grande, che quest'anno compie i suoi due secoli e si iscrive nel filone #donizetti200 lanciato lo scorso anno con il bicentenario del debutto teatrale di Donizetti (Enrico di Borgogna), un capolavoro non è. Anzi, l'esuberante esordiente che un anno prima aveva cercato di farsi notare ora pare diligentemente allineato alla moda rossinista. Si può capire: il Pesarese già diciottenne aveva scatenato una rivoluzione nell'opera italiana, a ventidue anni (l'età di Donizetti alla prima di Pietro il Grande) ha già all'attivo opere come La pietra del Paragone, L'italiana in Algeri, Tancredi. Ha aperto strade straordinarie, ma è anche un modello ingombrante per i giovani e chi ha maggior talento dovrà presto svincolarsi dall'emulazione, coltivandone piuttosto l'esempio come stimolo. Lo farà senz'altro, Gaetano, di qui a poco, ma per ora preferisce consolidare la sua posizione senza uscire da binari sicuri. Fin troppo sicuri, però, tanto che in tutta l'opera spira un vento costante di déjà entendu appena mosso, come un brivido, da un tema che troverà sviluppo nell'Elisir d'amore e regala un soffio di freschezza e originalità. Per il resto, il giovane Gaetano dimostra di saper senz'altro scrivere e orchestrare come si deve, ma anche di non aver ancor affinato le sue armi teatrali, per cui i numeri, soprattutto d'assieme, risultano sovente prolissi, di poco mordente, i personaggi sono abbozzati, mentre spunti comici, patetici o drammatici restano in superficie. Non che il libretto di Gherardo Bevilacqua Aldobrandini sia esattamente un capolavoro, basato com'è su tre agnizioni consecutive che vengono anticipate al pubblico in maniera esplicita o con sfacciatissimi indizi già nei primi minuti dell'opera. Certo (si parva licet), anche quando ci accostiamo a Edipo Re sappiamo benissimo subito la verità sul protagonista, ma Sofocle ci inchioda ugualmente con il fiato sospeso nel seguire il percorso verso la scoperta; di fronte a un “melodramma burlesco” è ovvio aspettarsi il trionfo dei buoni sentimenti, l'ascesa dei protagonisti, lo scorno degli antagonisti. Non è la sorpresa che conta, quanto la gestione dell'intreccio, e il nostro librettista non si può dire sforni un gioiello d'arguzia, e, là dove la questione potrebbe farsi più saporita, Donizetti fatica a cogliere la palla al balzo, come nella definizione di Madama Fritz, amante non riamata ma a conti fatti la vera primadonna dell'opera, sia per l'impegno (compare in nove numeri su quindici, fra cui due duetti e due arie molto estese, contro i sette del soprano amoroso, che ha solo un'aria piuttosto dimessa e nessun duetto) sia per il dinamismo teatrale (ama Carlo e gli dimostra sempre amicizia benché lui le preferisca un'altra, lo salva facendone riconoscere le nobili origini, tenta perfino di sedurre il bieco magistrato).

Tuttavia, proprio quelli che oggi possono apparire limiti del testo, diventano elementi d'interesse in sede di festival: non solo per la sacrosanta completa panoramica su un compositore dal genio ancora sottovalutato, ma anche per la comprensione del cosmo operistico del suo tempo. Il capolavoro si distingue, l'opera di maniera e apprendistato ci racconta, per esempio, che un librettista potesse trovare opportuno e spiritoso ricalcare Da Ponte (la prima cabaletta del Magistrato Cuccupis inizia con “Se tutto il codice dovessi svolgere | se tutto l'indice dovessi leggere”), o che “adesso punto, e vigola, parentesi e da capo” facesse già ridere centotrent'anni e più prima di Totò, Peppino e la malafemmina.

Insomma, non pronostichiamo – né, francamente, auspichiamo – un ingresso nel repertorio di Pietro il Grande, ma conoscerlo è interesssante e Donizetti Opera non si limita a scodellare la rarità, ma la serve con tutti i crismi dovuti al genius loci.

Rinaldo Alessandrini, al suo debutto donizettiano, offre una bella prova trattando la materia con onestà e chiarezza, mantenendo sempre buoni equilibri, dinamiche fluide, naturalezza del porgere. Lo segue bene la neonata compagine degli Originali, orchestra storicamente informata in forza al Festival. L'accordatura è leggermente più bassa rispetto a quella standard attuale, ma non bisogna cadere nella trappola della mistica del diapason “naturale”: non può esistere una frequenza “naturale” del la perché si tratta di una mera convenzione culturale, che nel tempo e nello spazio è cambiata anche in maniera radicale a brevissime distanze. Il punto è piuttosto pratico: se questa musica è stata composta per un'esecuzione con questo diapason, allora in questo caso (non necessariamente in altri e certo non in assoluto) risulterà senz'altro più naturale, cioè più logica, più efficace, più comoda. Lo si sente chiaramente nelle prove dei cantanti, in primis il tenore Francisco Brito, che affronta una parte non facile con gran disinvoltura ed è chiaro come la maturazione tecnica e artistica conti ben più dell'altezza della nota. Brito è bravo, spigliato nel definire il suo irruente personaggio, falegname di sangue blu sempre pronto a menar le mani, e puntuale di fronte a tutte le esigenze vocali di una scrittura di chiara derivazione rossiniana. Primadonna de facto, Paola Gardina dà l'anima per plasmare una Madama Fritz di spessore, fra spirito e malinconia, combattiva e rassegnata. Primadonna de iure, Nina Solodovnikiva dosa a sua volta brio e dolcezza e affronta senza problemi anche alcuni passaggi un po' più gravi di quanto non si ascolti di solito, con il la a 440 hz, per un soprano leggero. Loriana Castellano, Zarina Caterina con la sua brava aria del sorbetto, ben completa il terzetto femminile.

Ottimi anche i buffi. Buffo nobile, anzi, ormai baritono brillante e cantabile dal carattere serio (è pur sempre un omaggio a Francesco II d'Asburgo) pur in un contesto anche faceto, è lo Zar Pietro, un Roberto De Candia in gran spolvero, capace di coniugare la regalità illuminata e idealizzata di stampo ancora metastasiano che persiste come deus ex machina nel dramma semiserio à sauvetage (Don Fernando in Fidelio valga per tutti), la furia, all'occorrenza, contro il traditore e la bonimia del buon sovrano che avvicina il popolo in incognito. Viceversa Marco Filippo Romano deve vestire i panni stereotipati come non mai del bieco Magistrato Cuccupis corrotto e ignorante, di un azzeccagarbugli da quattro soldi prontamente destituito da buon re. Per fortuna canta anche lui benissimo, con buon gusto, ha un timbro che ben si differenzia rispetto a quello di De Candia e l'equilibrio risulta ancora una volta perfettamente calibrato. Nondimeno le piccole parti che tanto piccole non sono (il viscido usuraio Firman del basso Tommaso Barea e il libertino capitano Hondesisky del tenore Marcello Nardis; più ridotta la partecipazione di Stefano Gentili come notaio) sono rese in maniera efficace e il Coro preparato da Fabio Tartari è sempre pronto e puntuale.

Di fronte a un'opera che, si è detto, teatralmente ha qualche problemino, è legittimo chiedersi come si sarà comportato il collettivo Ondadurto, alle prese con la prima produzione lirica. Bene, bisogna dirlo, senza cercare voli pindarici ma raccontando con chiarezza, in fin dei conti in maniera anche abbastanza tradizionale, in un contesto visivamente molto ben caratterizzato a partire alle avanguardie russe del primo Novecento, fra futurismo e astrattismo, con esiti che arrivano ad ammiccare anche all'estetica della pop art. Un libretto che vive di stereotipi e assurdità sta benissimo calato fra forme geometriche, colori accesi, proiezioni astratte, così come la maniera ligia di un giovanotto che di lì a poco farà scaturire il suo genio si identifica efficacemente nell'azione convenzionale vestita di scalpitante avanguardia e straniante astrazione.

Ben fatto.