La luna e il fuoco

di Antonino Trotta

Una magnifica Rebeka Lokar e un incendiario Andrea Battistoni consegnano al successo Il trovatore di Giuseppe Verdi, pur ordinario nel disegno registico di Marina Bianchi, che ha inaugurato la stagione del Teatro Carlo Felice di Genova.

Genova, 23 novembre 2019 – Sia esso illuminato dai bagliori della luna o dalle irrequiete lingue di fuoco che stridono ora in ciò che rimane dell’efferata pira, ora negli occhi degli smaniosi di vendetta, Il trovatore rimane l’opera notturna per antonomasia: tinte fosche e livide, suggerite in partitura da indicazioni del tipo morendo o allargando, profondono a queste tenebre dalle mille sfumature un’atmosfera spesso lugubre e oscura, appena rischiarata da quelle sorgenti luminose che in ogni caso non inondano mai con luce piena né la buca, né la ribalta, lasciando quindi procedere la storia in penombra tra arie, ballate e canzoni che parlano al passato di ricordi ancora corruschi nella memoria dei personaggi. Di fatto Il trovatore è anche l’opera del racconto, che esordisce proprio con il racconto di Ferrando nell’introduzione e trova la propria apoteosi drammatica in quello di Azucena – superfluo ribadirlo, il ruolo più complesso e criptico del quartetto di protagonisti che varrebbe la pena approfondire al di là della sua aura stregonesca – e che, a differenza ad esempio delle coeve esperienze di Rigoletto e della Traviata, crea una certa estraneità della narrazione al narrato – in parte ricalcando i grandiosi modelli dei ruggenti anni di galera –, viepiù se vi si riconosce una dinamica temporale talvolta surreale. Tra continue sospensioni e flashback, la componente cronologica si articola in una dimensione spesso del tutto arbitraria, con un dettato musicale che sembra addirittura ostacolare il naturale avanzare dell’azione. Quante illustri navi si sono infrante contro gli scogli acuminati del finale secondo, con le due fazioni pronte a sguainare le spade e il sublime concertato che trattiene la masse dal prevedibile bagno di sangue. No, mettere in scena Il trovatore, per quanto popolare il titolo possa essere, è tutt’altro che scontato: ci si può lasciare sedurre dal coté eroico e cavalleresco, dalla morsa del misticismo che stringe il capolavoro, dalle fiamme che avvampano sul rogo, da quei quadri che si susseguono come episodi di una serie, ma su questa strada se ne avrà sempre e solo una visione parziale, al di sotto del vero potenziale dell’opera.

Il nuovo allestimento che inaugura la stagione del Teatro Carlo Felice di Genova, la prima sotto la guida nel sovrintendente Claudio Orazi, non si sottrae a questo destino: è un Trovatore assolutamente ordinario nella sua concezione e nella sua realizzazione che appunto individua nel secondogenito della trilogia popolare un antesignano del genere fantasy tanto in voga oggi. Marina Bianchi, che di questo Trovatore cura la regia, fa in fin dei conti quello che si è sempre fatto, rimpinguando qui e là la scena con qualche soluzione che richiama l’attenzione nel momento in cui rischia di divenire grottesca – abbastanza sgraziati i soldati che duellano piroettando nel sopracitato concertato –. E se l’enorme impianto girevole studiato da Sofia Tasmagambetova e Pavel Dragunov di quadro in quadro rivela prospettive e angolazioni dell’ambientazione via via differenti, con assicurato soddisfazione alla vista – a eccezione del ridicolo scheletro ingabbiato nel finale –, la monotonia del punto di messa a fuoco nella narrazione fa scorrere via questo spettacolo senza alcun sussulto. Colpo di scena, alla fine Azucena stramazza al suolo. Non si capisce se sia morta o svenuta. Pazienza, poco importa.

Luna e pira, si diceva all’inizio, ricorrono e caratterizzano invece il versante musicale di questa produzione. Innanzitutto i complessi del teatro, in gran forma – soprattutto il coro, istruito da Francesco Aliberti –, forniscono Andrea Battistoni di tutti gli strumenti necessari a infiammare la partitura. La sua è una concertazione vibrante, attentissima alle esigenze del palcoscenico – cui concede respiro e occhio di riguardo –, che esalta le pagine di distesa cantabilità e si fa trascinante laddove la vicenda lo richieda, efficacissima nell’evocare e nel descrivere, nel valorizzare i colori della partitura, che partono da dinamiche e agogiche ben proferite e sviluppante e si finalizzano in un’espressività dell’orchestra che esplora tutte le inflessioni del dettato verdiano. Peccato per qualche sforbiciata alla riprese.

Poi c’è lei, Rebeka Lokar, vera punta di diamante della serata. Finalmente sottratta a Turandot e Abigaille, con cui pur ha regalato innegabili emozioni, il soprano sloveno inizia finalmente a riappropriarsi di quello che sembra essere, e che alla prova dei fatti conferma essere, il suo repertorio d’elezione. Voce amplissima e così facile da far invidia alle colleghe più blasonate, la Lokar costruisce filato dopo filato, qualunque sia l’altezza della nota, un personaggio lunare, luminoso, a cui però non manca certo il temperamento delle prime eroine verdiane. Con agilità pressoché impeccabili nelle cabalette, fraseggio e legato d’alta scuola, emissione fluidissima, morbida e priva della minima forzatura, puntature torrenziali scagliate come saette in chiusura del terzetto e del duetto, la Lokar si fa strada, senza un attimo di cedimento o stanchezza, verso l’aria dell’ultima parte. «D’amor sull’ali rosee» è sublime: solo questo momento è valso tutta la trasferta a Genova, anche a costo di raggiungere il Carlo Felice a nuoto.

Di minor statura, ironia della sorte anche letteralmente, il resto del parterre vocale. Diego Cavazzin è un buon Manrico, forte comunque di un materiale vocale di tutto rispetto, soprattutto per il timbro lucente e marcatamente romantico. Si difende con onore nella tenuta del ruolo, anche se il fraseggio mostra nei recitativi qualche calo di tensione. Certo, la Pira abbassata di mezzo tono – a partire dal tempo di mezzo – non è un aiuto di poco conto, specialmente se riduce il rischio di qualche forzatura che pur si è percepita qui e là. Ha però il merito di essere un artista misurato, di buon gusto, restio a qualsivoglia gigionata, e ciò indubbiamente regala intensità alla sua interpretazione. Contrariamente, Sergio Bologna tende ogni tanto a eccedere e sebbene riscuota calorosi successi nell’aria «Il balen del suo sorriso», si disimpegna con migliori risultati negli altri punti dell’opera. Il suo, comunque, è un conte di Luna di buon mestiere. Il mestiere manca ancora alla giovane Maria Ermolaeva, purtroppo piuttosto disorganizzata nell’emissione: gli acuti sono vetrosi, il passaggio al registro di petto – dove tra l’altro la voce risuona tubata – talvolta brutale. E si aggiunga pure qualche scelta musicale assai azzardata. Quanto al comprimariato, Mariano Buccino è un discreto Ferrando: qualche difficoltà, più che evidente, in acuto. Marta Calcaterra e Didier Pieri, quali Ines e Ruiz, al solito impeccabili. Filippo Balestra (un vecchio zingaro) e Antonio Mannarino (un messo) completano degnamente il cast.

Teatro non propriamente gremito, ma la pioggia imperversava su Genova e la diserzione del pubblico era quasi preannunciata. Chi c’era, però, ha gradito. Molto.