L'arte, il tempo, la storia

  di  Andrea R. G. Pedrotti

Al Theater an der Wien, l'opera di Spontini vive nella contemporaneità grazie alla regia raffinata e intelligentissima di Johannes Erath, che reinterpreta l'antichità vista attraverso gli occhi dell'epoca napoleonica nella sensibilità del pubblico di oggi. Nel cast si impone il Licinius di Michael Spyres.

VIENNA, 27 novembre 2019 - Punto di forza della nuova produzione di La Vestale, rappresentata al Theater an der Wien, è stato senz'altro la regia di Johannes Erath, regista che avevamo già avuto modo di apprezzare nell'allestiento di Un ballo in maschera alla Bayerische Staatsoper [leggi: Monaco di Baviera, Un ballo in maschera, 27/07/2016 e DVD, Verdi, Un ballo in maschera].

Consideriamo che, all'epoca della prima rappresentazione nel 1807 a Parigi, la concezione iconografica dell'antichità era assai arbitraria. Al tempo di Winckelmann - di poco precedente, che partecipò agli scavi di Pompei ed Ercolano - l'archeologia aveva sovente un approccio più letterario che scientifico, ancor più di quello che condusse Heinrich Schliemann alla scoperta dell'antica città di Troia, utilizzando i testi omerici come bussola per il percorso. Mancavano ancora molti anni, quasi un secolo, prima della nascita di uno dei più grandi studiosi delle antichità romane e probabilmente uno dei più insigni archeologi d'Italia, Ranuccio Bianchi Bandinelli, i cui testi sono ancora riferimento imprescindibile nelle aule delle università del Bel Paese.

Il racconto della mitologia classica, e ancor più dell'antichità, si basava su quella che ne era la percezione dei contemporanei, ma nei rapporti relazionali, negli aspetti sociali e in una miriade di altri dettagli, si trattava solo di un pretesto che raccontasse l'epoca presente, con i suoi equilibri di potere e umani.

A pochi passi dal Theater an der Wien sta uno degli edifici più simboloci della storia di Vienna, il palazzo della Secessione e su di esso, in caratteri aurei, è riportata la scritta “Der Zeit ihre Kunst, der Kunst ihre Freiheit” [A ogni epoca la sua arte, all'arte la sua libertà], che venne concettualmente ricalcata da un grande antropologo senese, Alessandro Falassi, il quale un giorno disse “ogni espressione umana dev'essere rappresentativa della società che la pone in essere.”

La concezione di Johannes Erath è la medesima descritta dalla Secessione viennese e dal professor Falassi, poiché egli racconta la storia di una vestale non inondando il palcoscenico di di pepli e candide statue (che poi storicamente non erano candide) come piace ai puristi dell'immagine standardizzata, che potremmo, in altro modo, definire i pigri di pensiero.

La cultura italiana, per quanto venga rivendicata come “cattolica”, resta quella pagana, dimostrando che l'azione di Costantino e Diocleziano, a parte fare danni irreparabili, non ha eliminato quel retroterra culturale che caratterizzava la penisola; ha solo imposto che questa ruotasse attorno alla filosofia di un Rabbino eretico.

Che differenza possiamo trovare fra il ruolo delle vestali che sia più rigido di quello delle suore di clausura? La schiera di santi e di protettori omaggiati da più parti d'Italia, non è forse un moderno Pantheon classico? Allo stesso modo come possiamo ignorare la ricorsività storica e antropologica della presenza di una divinità femminile, protettrice della famiglia e del focolare?

Erath individua la Madonna come Vesta e la scelta è condivisibile, perché essa viene adorata come statua (o statuetta) e simbolicamente è sicuramente assai più intelligibile alla sensibilità dell'uomo contemporaneo, che nella percezione va oltre la propria interiorità. Il Sommo Sacerdote è rappresentato come un altro prelato. Che cosa c'è di strano? Non era forse il Pontefice Massimo a scegliere le fanciulle destinate al ruolo di Vestali? Non viene forse usato il medesimo titolo per indicare la più alta carica della Chiesa cattolica.

Il sunto di una regia stilizzata, curata nel dettaglio di movimenti del coro che appaiono una lunga danza (e questo è molto affine alla classicità), sta in questo: la rappresentazione di una società che non concede a una donna la libertà. Le Vestali diventavano tali fra il sesto e il decimo anno d'età ed erano tenute a osservare i loro obblighi, fra i quali la castità, per trent'anni. Facendo un rapido calcolo, la più giovane fra le vestali a poter pensare sposarsi e procreare avrebbe avuto trentasei anni, un'età invero avanzata all'epoca per concretizzare biologicamente questo proposito.

È bello anche un parallelismo che porta alla mente il primo libro della Politica di Aristole, quando il filosofo greco definisce come nucleo primario della Polis, la famiglia. Ebbene, Erath mostra l'interprete del Sommo Sacerdote come modermo padre di famiglia (o Pater familias per gli amanti del latino), intento tenere sempre con sé una statuetta della Madonna, del tutto identica, fuorché per dimensioni, a quella che per le Vestali rappresentava la dea, il cui fuoco non andava mai spento. Nel mondo antico, perlomeno in quello primordiale, mantenere acceso un fuoco era una questione di sopravvivenza per l'intera comunità e andava preservato con rigore, un rigore che ha perso le motivazioni pratiche, ma è rimasto intatto nell'animo di questo padre di famiglia. Noi sul palcoscenico del Theater an der Wien vediamo questo parallelismo e tutto questo è corretto, perché serve a chierirci quale fosse la vera storia, non solo della Vestale, ma di una qualunque vestale.

Senza dubbio sul piano musicale chi primeggia è il Licinius di Michael Spyres, che, fra i maggiori interpreti di questo repertorio, affronta la parte con sicurezza e padronanza dello strumento encomiabili. Sicuro in ogni passaggio musicale, si palesa, ancora una volta, attore di primissimo livello.

Desta alcune perplessità, Sébastien Guèze (Cinna), cantante piuttosto avaro di colori e sfumature e non sempre ineccepibile nell'intonazione. Da contraltare alla sua prestazione, una prova scenica assai convincente.

È interessante Elza van den Heever (Julia), che padroneggia la parte esibendo una notevole precisione musicale. Talvolta l'emissione dovrebbe addolcirsi, ma questo non osta alla buona resa complessiva.

Bene il resto del cast con Claudia Mahnke (La Grande Vestale), Franz-Josef Selig (Le Souverain Pontife), Dumitru Mădărăşan e Ivan Zinoviev (Un Consul).

Dal podio Bertand de Billy presta attenzione al rapporto fra buca e palcoscenico, ma non mantiene sempre un corretto equilibrio fra le sezioni orchestrali, con ottoni e percussioni non perfettamente amalgamate agli altri professori. Manca una linea convincente e il fraseggio appare fin troppo greve, spesso pesante, sicuramente stilisticamente non affine alla scrittura di Spontini. Peccato, considerando l'ottima qualità tecnica dei Wiener Symphoniker: l'orchestra impegnata in buca per l'occasione.

Il Coro Arnold Schönberg (diretto da Erwin Ortner) ben si comporta, offrendo al pubblico una buona resa musicale e un'eccellente prestazione scenica.

Oltre al regista Johannes Erath, per la parte visiva, rammentiamo Katrin Connan (scene), Jorge Jara (Costumi) Bernd Purkrabek (Luci), Bibi Abel (Video) e Olaf A Schmitt (drammaturgia).

foto © Werner Kmetitsch