Bada!...c'è la cuffietta rosa...

  di  Andrea R. G. Pedrotti

Un nuovo allestimento di Hugo De Ana, particolarmente accurato nel definire i personaggi a tutto tondo e fuori dai cliché, la bacchetta autorevole e intelligente di Giampaolo Bisanti e un buon cast in cui spicca la Mimì di Mihaela Marcu, carismatica e musicalmente incantevole, garantiscono il successo della Bohème al Teatro Petruzzelli di Bari.

BARI, 18 dicembre 2019 - Per la chiusura della stagione 2019 sul palcoscenico del teatro Petruzzelli di Bari prende vita la nuova produzione firmata da Hugo De Ana e dal direttore musicale, Giampaolo Bisanti.

La messa in scena del regista argentino è originale nel caratterizzare le psicologie dei personaggi, senza seguire pedissequamente la tradizione - sovente indice di tradimento e cattiva abitudine -, ma richiamando le personalità che traspaiono dal romanzo di Henri Murger, Scènes de la vie de bohème.

Il testo dello scrittore francese rappresenta perfettamente la vita degli studenti che, forse sfaccendati, si affacciano alla vita, con l'animo ancora pervaso dalla giocosa ingenuità della fanciullezza, protetta nei suoi eccessi dal focolare familiare e che ora incontra, talvolta scontrandosi con esso, un mondo fatto di espedienti, affetti, amori, dolori, commedia e tragedia, tutti mesciuti e indispensabili al grande percorso dell'esistenza. Un mondo che pareva eterno che ci ha accompagnati da prima che il quartiere latino di Parigi conoscesse le vicende di Rodolfo e dei suoi amici e che è stato, ahinoi, stroncato dallo svilimento del contatto umano filtrato e privato dell'anima dalle nuove tecnologie, cosiddette sociali.

Fortunatamente chi scrive ha avuto la fortuna di vivere i suoi anni universitari in un contesto quasi identico, e ancor riconosce con un velo di nostalgia i vari Benoît (che nella mia esperienza era proprio barese), gli amici dell'esperienza, con le nostre Mimì, Musette e il nostro Momus.

La bohème è un'opera eterna perché è impossibile non riconoscersi in ciò che accade, ma, sovente, lo si fa come fosse un etereo sogno, una rimembranza di quegli anni che, nonostante tutto, hanno rappresentato una tappa fondamentale. Spesso, tuttavia, la rimembranza differisce dalla realtà di ciò che fu e tendiamo a ricordare solo l'elegia della spensieratezza del tempo passato: moralità, formalità, romanticismo, fanno escludere dalla memoria, e, quindi dalla diffusa comunicazione della forma teatrale, il reale che è stato. È un conformismo innato nell'uomo che, rivedendosi, allo specchio spesso prova imbarazzo, vergogna, se non avversione. Perciò questo specchio va purificato, ammantato di nitore, ma è un errore e non bisogna rifiutare, in ossequio al costume, la componente d'umanità totalizzante che caratterizzò gli anni degli studi.

Nella regia di De Ana c'è molto di questo, a partire dalla protagonista. Mimì non segue il classico cliché della fanciulla trasognata e puramente innamorata di Rodolfo: Murger racconta di una grisette, una delle tante del quartiere latino. Donne sole, operaie, sarte, ricamatrici, spesso prostitute. Il sogno d'amore ci fa travisare la più probabile natura dell'incontro fra Mimì e Rodolfo. La realtà più plausibile è che avesse atteso che uno dei quattro amici restasse solo, in modo da non essere costretta a trascorrere la vigilia di Natale sola, senza il conforto di un dono, magari una “cuffietta rosa”, o poter gustare il piacere di assaporare una crema da Momus. Pensandola in questo modo può esser quasi più commovente.

Si potrebbe pensare che Mimì abbia atteso la solitudine di Rodolfo, magari già invaghita di lui, ma senza aver mai avuto l'ardire di farsi avanti. Entrambe le ipotesi, la prima maggiormente considerando la futura relazione col viscontino, sono plausibili ed entrambe sono emotivamente più coinvolgenti rispetto alla consolidata idea di un colpo di fulmine. La Mimì pensata da De Ana assomma alla pulsione del sentimento quella erotica. Questo rende possibile qualsiasi idea e ci si può rispecchiare tutti nella medesima situazione. Dopo poco i due giovani si trovano a ripetersi “io t'amo tanto e sono tutta tua” o “all'uom felice sta il sospetto accanto”.

Sono passate solo poche ore: non possono essere innamorati, è solo una pulsione (a tutto tondo), che, se poniamo attenzione, si affievolisce con naturalezza negli atti successivi, aprendo le porte a un sentimento totalizzante, o al superamento di un momento di ebbrezza che resta circoscritto nello scrigno dei ricordi.

Il libretto di Illica e Giacosa, al pari della musica di Puccini, è impertinente con entrambi i protagonisti ad “aiutare il destino”, quasi per farsi forza (Rodolfo) e per sollecitare la situazione (Mimì), ben sapendo che una donna, se prende una decisione, a dispetto di ciò che può apparire, ha sempre maggior contezza, caparbietà e capacità d'azione, rispetto a quanta ne possa avere un uomo, in realtà ben più impacciato rispetto al sesso che da sempre è destinato a comandare il gioco della seduzione, divertendosi nel far credere all'uomo di aver un qualsiasi potere decisionale in un rapporto, quando il sentimento è reciproco.

Il vero amore fra Rodolfo e Mimì sarà nel terzo e quarto quadro, in ossequio al più autentico concetto di Liebestod. È così che, ancora una volta, per La bohème ci si commuove irrimediabilmente e senza speranza quando Mimì evoca i primi incontri e ritrova il pegno iconico della grandezza del più autentico fra i sentimenti: la cuffietta rosa. E per la cuffietta rosa non ci si commuove: si piange, perché alla Bohème non si può resistere, come non si può resistere all'intensità di significati racchiusi in un oggetto soloa. È la grandezza della semplicità, come lo è il sentimento più autentico, non azioni eclatanti, solo una cuffietta rosa, dolce nel colore, come nel vezzoso diminutivo del nome.

Questa lettura è resa possibile, grazie alla presenza sul palcoscenico di una cantante come Mihaela Marcu. A oggi il soprano rumeno è fra i primissimi interpreti al mondo per capacità attoriali. Il carisma scenico è dirompente, la dizione imperfettibile, con un utilizzo delle consonanti liquide e delle vocali encomiabile e assai raro anche in interpreti madrelingua. Il timbro è avvolgente, l'emissione rotonda, la proiezione consente alla voce di spandersi per la sala senza difficoltà, indifferentemente dalla posizione della Marcu in palcoscenico, sia che osservi frontalmente la sala, sia che si rivolga al fondo del palcoscenico. Il fraseggio è curato nel minimo dettaglio, la distribuzione degli accenti e la policromia del suono rendono ancor più efficace la resa teatrale, in tutte le sfaccettature psicologiche richieste dal ruolo. Come sempre ci è capitato di constatare, la Marcu palesa un ulteriore miglioramento tecnico: i registri sono omogenei, gli acuti timbrati e i gravi avvolgenti. In ossequio allo stile pucciniano sono splendide le tenute di fiato e la morbidezza d'emissione - sempre pura e appoggiata come necessiterebbe sempre il canto italiano -, nonché la capacità di alcuni pianissimi di madreperlacea dolcezza. Quello della Marcu è un gradito ritorno in palcoscenico, dopo una lieta pausa per una gravidanza, perché segna la ripartenza di un'artista che, vista la costanza nei progressi, appare sempre più destinata, da predestinata che era, a far la storia di questa forma d'arte.

Piace anche la lettura che De Ana ha pensato per Musetta, la quale appare più simile al consueto. Al suo arrivo fa il verso, anche nelle movenze, alle attrici che animavano il cinema muto del primo scorcio del XX secolo. Anch'essa, tuttavia, appare donna meno istintiva rispetto alle interpretazioni canoniche, rendendo più logica l'evoluzione psicologica del personaggio nel terzo e specialmente nel quarto atto. Elena Gorshunova è brava attrice, ben calata nel personaggio. La vocalità appare un po' leggera per la scrittura pucciniana che, anche per il ruolo di Musetta, richiederebbe maggior corpo, soprattutto nel registro centrale, tuttavia il soprano russo appare musicista precisa e giunge al termine dell'opera senza palesare difficoltà particolari.

Matteo Desole (Roldofo), previsto nel cast alternativo e subentrato alla prima all'indisposto Piero Pretti, è interprete corretto, sebbene piuttosto anodino nel fraseggio e dalla recitazione non troppo coinvolgente. Il materiale vocale è interessante, ma appare palese come sia necessaria un'ulteriore maturazione. Qualche problema si evidenzia nel primo quadro, dove più parti vengono spianate e il passaggio fra il registro centrale e l'acuto non appare sempre sicuro.

Francesco Landolfi è un Marcello scenicamente partecipe e dotato d'un buono strumento. Appare assai interessante per mezzi vocali lo Schaunard di Seung-Gi Jung. Alessandro Spina è un Colline corretto, ma deve migliorare per personalità interpretativa e scenica, in mancanza delle quali appare fin troppo anonimo nel contesto dell'intera produzione.

Completavano il cast Bruno Lazzaretti (Alcindoro\Benoît), Vincenzo Mandarino (Parpignol), Nicola Cuocchi (Venditore ambulante), Antonio Muserra (Sergente dei doganieri), Graziano De Pace (Un doganiere).

Scene e costumi, anch'essi a firma di Hugo de Ana, ambientano le vicende come fosse un film muto del principio del secolo scorso, rendendo evidente la scelta con alcune proiezioni iniziali e la caratterizzazione del secondo atto fra espliciti riferimenti alla cinematografia di quegli anni. Momus è un chiosco d'un omonimo circo parigino, la crema è un gelato alla crema, Parpignol un figurante del circo medesimo, animato dalla presenza d'un Carro di Tespi e da altre attrazioni tipiche dei parchi di divertimento che consentono a Musetta il gioco da attrice.

Dal podio convince pienamente la concertazione di Giampaolo Bisanti (direttore musicale del Petruzzelli), probabilmente una delle migliori bacchette italiane della sua generazione. Forte dell'inattaccabile solidità, ottenuta con anni di studio e gavetta, tiene in pugno un'orchestra che è sua creatura e dalla quale è capace di ottenere, a suo desiderio, originali intuizioni interpretative, specialmente nel finale secondo per agogica e, per bellissime policromie richieste a buca e palcoscenico, nel quarto. L'organico non appare ancora forte di un'autonoma coesione, come palese osservando le caratteristiche del gesto di Bisanti che, tuttavia, riesce a ottenere il meglio dalla “sua” orchestra, grazie a una tecnica che gli garantisce la capacità di tenere in pugno con competenza e intelligenza qualsiasi situazione.

È sempre una gioia particolare assistere alla progressiva consacrazione di un artista che, personalmente, ho avuto ventura di seguire fin dagli esordi sul finire degli anni '90, proprio in una Bohème, quand'ero ancora studente delle scuole medie, e che, con la sua gavetta, ha accompagnato parallelamente buona parte della mia personale crescita nel rapporto con la musica e il melodramma.

Al termine applausi per tutti da parte di un teatro Petruzzelli gremito in ogni ordine di posto.

foto Mirco Magliocca