Schönberg, uno di noi

 di Alberto Ponti

Rai NuovaMusica si chiude con tre pezzi assai diversi tra loro ma diretti con personalità dal giovane maestro uzbeko

TORINO, 22 febbraio 2019 - Il ritorno a Torino di Aziz Shokhakimov, classe 1988, per la serata finale di Rai NuovaMusica 2018-2019 coincide con un successo caloroso, per ovazioni e presenze in sala, che conferma l'ottima impressione già suscitata poco più di un anno fa da questo promettente direttore in Ligeti e Penderecki. Se da sempre il repertorio moderno e contemporaneo (nonostante faccia riflettere il fatto che nel giudizio dei più vi appartenga un Pelleas und Melisande di Schönberg composto quasi 120 anni fa!) fatica a entrare con frequenza nei programmi, la partecipazione ai concerti della rassegna dimostra invece quanto margine di crescita e apprezzamento abbiano serate impaginate con intelligenza. La sola platea dell'auditorium 'Toscanini', a cui era limitato l'accesso durante passate edizioni, non è stata più sufficiente a contenere in nessuno dei tre appuntamenti di questa stagione un pubblico ampio, disposto anche nelle balconate come accade per eventi di maggior richiamo, non solo limitato a giovani, addetti ai lavori e studenti di conservatorio ma comprendente un uditorio variopinto e trasversale, desideroso di non perdersi nessuna nota di quella che più di ogni altra rimane la colonna sonora della nostra epoca, la più vicina (si voglia ammetterlo o meno) alla nostra intima sensibilità di figli e nipoti del Novecento.

Verwandlung III (2010) di Wolfgang Rihm (1952) è una breve pagina dal movimento incessante, evocato dalla stessa 'trasformazione' del titolo, cangiante e mutevole nella parcellizzazione di una scrittura memore della grande tradizione tedesca: echi di Richard Strauss, di Hindemith, di Hartmann convivono in un'atmosfera di controllato, matematico rigore. Shokhakimov naviga nel sofisticato universo di Rihm come nel suo elemento naturale, plasma con gesto energico un'orchestra duttile, elettrizzante nelle deflagrazioni improvvise ma precisa e pungente nella messa a fuoco di particolari ora ironici e beffardi, ora intimi e commoventi. Un tremolo in diminuendo delle viole, un corale raggrumato dei tromboni, il tintinnio soffocato delle percussioni e della celesta dipingono un paesaggio familiare e misterioso allo stesso tempo, avvalorando Rihm come una delle voci più autentiche e affascinanti dello scenario della musica d'oggi.

Il monolitico Concerto per flauto e orchestra (1960) è invece uno dei brani più schivi e drammatici di Goffredo Petrassi (1904-2003), nonostante il virtuosismo del solista, modellato pensando a Severino Gazzelloni, dedicatario del lavoro, non manchi di esercitare una presa immediata, ipnotica sull'ascoltatore. Siamo qui lontani dal 'barocco romano' degli esordi con il quale è spesso sbrigativamente liquidato il compositore, autore con la serie degli otto Concerti per orchestra di uno dei corpus più felici e multiformi dello scorso secolo. Giampaolo Pretto, primo flauto della compagine Rai, si rivela interprete in grado di rendere al meglio le infinite sfumature di una parte che metterebbe a dura prova qualsiasi strumentista (al pari della fenomenale Sequenza di Luciano Berio regalata come bis tra gli applausi), calibrando il suo intervento pressoché continuo da capo a fine con un'espressività che conferisce significato a fruscii, note tenute, salti d'ottava, brevi cellule di melodia spazzate dalle ventate di uno stile sinfonico asciutto e senza compromessi, dove a dominare è il colore scuro degli archi gravi e volutamente privi di viole e violini, dei legni limitati a oboi e fagotti, degli ottoni al completo, impiegati con parsimonia in contrapposizione a un inedito 'concertino' formato dal flauto solo, dall'arpa e da una chitarra. L'intesa con il podio, distillatore di suoni essenziali, all'occasione di algida consistenza, conduce a un'esecuzione destinata a rimanere un sicuro riferimento, nella purtroppo non vasta discografia del pezzo, per la capacità di piegare la ricerca quasi speculativa del maturo Petrassi a un'urgenza comunicativa che ricorda come la grande musica, anche nel suo versante più sperimentale, si inveri sempre tra le maglie di un discorso.

Il vasto e assai noto poema sinfonico Pelleas und Melisande op. 5 (1902-03) di Arnold Schönberg (1874-1951) proposto in chiusura suscita un'ondata di vero entusiasmo per la bacchetta trentenne. Shokhakimov ha la stessa età che aveva Schönberg quando presentò la sua opera in una Vienna inquieta ma ancora dominata dal gusto tardoromantico e affronta Pelleas con la giovanile esuberanza che traspare da ogni pagina della colossale partitura, segnando, con l'incandescente racconto delle vicende degli amanti del romanzo di Maeterlinck, gli estremi limiti del linguaggio tonale tradizionale. La sensuale ondulazione in 12/8 di viole, fagotti, corno inglese e clarinetti delle battute iniziali, apparsa vitale e palpitante come non mai, dà già il senso di tutta questa interpretazione in cui ogni nota sembra voler colpire la platea con atteggiamento audace ed incalzante. Per nulla intimorito, il direttore si abbandona a un flusso più epico che meditativo, lussureggiante negli scontri tra le masse di suono, talvolta a scapito di qualche sottigliezza, ma con impareggiabile efficacia narrativa, resa memorabile da un completo dominio dei tempi e da un innato senso timbrico. Una lettura originale e personale, distante sia da visioni intellettualistiche della crisi fin de siècle che da forzature eccessivamente profetiche sugli squarci, pure presenti in filigrana, dell'imminente espressionismo. Il futuro padre della dodecafonia si manifesta per ciò che è: un classico, eppure mai così vivo, con la sua passione e la sua disperazione, le sue contraddizioni tra gigantismo e intimismo, al nostro fianco di uomini d'oggi.

foto Maria Vernetti