Viaggio attraverso Schubert

 di Luigi Raso

Per la prima volta a Napoli, Mitsuko Uchida incanta con le sue interpretazioni schubertiane nel cartellone dell'Associazione Scarlatti.

NAPOLI, 7 marzo 2019 - Mitsuko Uchida inizia il suo viaggio nel pianismo schubertiano chiedendo al pubblico silenzio e concentrazione, invitandolo a coprire la bocca con un fazzoletto in caso di accessi di tosse. Si posiziona al pianoforte e il peregrinare tra tastiera e martelletti ha inizio.

La prima tappa del percorso è la Sonata in la minore op. 164 D. 937, composta da Schubert nel 1817.

La contrapposizione tra luci e ombre, energica esaltazione e nostalgia, del primo movimento è illuminata da un pianismo curato nei minimi dettagli, dal suono rotondo e purissimo della Uchida. L’accompagnamento della mano sinistra ha la stessa dignità della melodia: una tarsia musicale limpida, a tratti tagliente e furiosa che poi si sfrangia in serene oasi melodiche. La pianista ci mostra con immediatezza quel “genio sempre bifronte, sempre toccato dal soffio della morte(Thomas Mann, Doktor Faustus) così presente nelle composizioni di Schubert: un enigmatico gioco di contrapposizioni e rimandi nel quale il tocco cesellato della Uchida ha modo di esprimersi spaziando in una vasta gamma dinamica. Con l’Allegretto quasi andantino - tema dall’eleganza, dolcezza e malinconia tipicamente schubertiana - Mitsuko Uchida rapisce e trasporta il pubblico in una dimensione metafisica, in un bozzetto sonoro intimistico, etereo, dove le sonorità ricavate dal suo Steinway & Sons sembrano evocare quelle di un carillon in lontananza che lentamente svanisce. Il successivo Allegro vivace è speculare al primo tempo per il rafforzamento delle contrapposizioni tra lirismo e veemenza espressiva: il discorso musicale, dopo la stasi contemplativa del secondo tempo, si ricompone in un scintillio di sonorità possenti e carnali, screziate da incisi intimistici. Quando si giunge all’ultimo accordo in fortissimo, secco, deciso, si ha l’impressione di aver troncato senza possibilità di appello proprio l’inquieto vagare dell’anima di Schubert.

Sono sette gli anni che separano la Sonata D. 537 dalla D. 840, scritta nel 1825, incompiuta, articolata in soli due tempi; quando fu pubblicata recava il titolo apocrifo di Reliquie, dernière Sonate, come a giustificare - erroneamente - la sua incompiutezza.

La lettura della Uchida è screziata, dominata dal controllo perfetto delle dinamiche, sempre variegate, dall’uso sapiente e calibrato del pedale. Su tutto domina il suo tocco purissimo, tanto languido e crepuscolare quanto l’intimo ripiegarsi in se stesso del tortuoso cantabile schubertiano impone. Se la narrazione musicale schubertiana è paragonabile, per la varietà e la diversità dei temi sonori che tocca, all’andamento di un viandante, Uchida delinea con estrema chiarezza e perentorietà i perimetri di questo vagare: non c’è “sosta” musicale che non sia analizzata, sviscerata nelle sue cellule armoniche e ritmiche, in un fluire ininterrotto e palpitante di slanci e abbandoni melodici.

Il concerto si chiude con l’ultima Sonata di Schubert, in si bemolle maggiore D. 960.

Composta nel fatidico 1828, l’anno della morte del trentunenne viennese, durante il quale, in una sorta di febbrile estasi creativa, nascono autentici capolavori quali i cicli liederistici Winterreise e Schwanengesang, il sublime Quintetto in do maggiore op. 163 D. 956, il cui Adagio del secondo movimento, da solo, darebbe l’accesso a Schubert all’Empireo musicale. L’anno 1828 sta a Schubert come il 1791 sta a Mozart: entrambi, giovanissimi, negli ultimi mesi di vita sono riusciti a condensare e concentrare nelle estreme composizioni quella perfezione già disseminata in precedenza. I giorni estremi riservano al viennese e al salisburghese un periodo compositivo tanto fecondo quanto imbevuto di originalità e di sperimentazione di evoluti linguaggi prossimi alla perfezione formale.

La Uchida affronta la monumentale Sonata D. 960 con la consapevolezza che essa rappresenta, almeno per le composizioni pianistiche, il riassunto e la summa di una vita. Sin dall’attacco in levare del primo movimento si percepisce che la pianista giapponese si avvicina allo spartito in punta di piedi, con reverenza, articolando con meraviglioso legato ogni nota del primo tema, come in un sommesso colloquio. Il suono si fa leggero, ma è sempre palpitante; completamente immerso nel fluire musicale quello dell’Andante sostenuto del secondo movimento, laddove viene sostenuto, in una delle sublimi ed enigmatiche contrapposizioni tipiche di Schubert, nell’accompagnamento ostinato della mano sinistra. L’effetto complessivo è di una struggente, intima e meditativa cantilena, stemperata in atmosfere sonore, evanescenti e sognanti, cariche di attesa e mistero che a tratti - grazie a un uso magistrale del pedale - sembrano anticipare quelle dei Préludes di Claude Debussy. Nello Scherzo. Allegro vivace e nel finale Allegro ma non troppo, dopo la sospensione onirica del secondo tempo, il pianismo della Uchida si fa più corposo, più tangibile. La purezza delle forme e la rotondità del suono riprendono il loro dominio, tendendo a far dimenticare la precedente sospensione estatica, trascinando l’ascoltatore in un clima di spensieratezza nel quale aleggia una genuina e fanciullesca ilarità.

Il successo che il gremito teatro Sannazaro tributa a Mitsuko Uchida è tale che, malgrado il programma ampio e impegnativo, la pianista giapponese non si sottrae dal concedere un bis: una sonata di Domenico Scarlatti, nato proprio a Napoli nel 1685.

I tre minuti della sonata sono ancora una volta l’occasione per l'artista nipponica di offrire un saggio della sua arte e tecnica pianistica, nitida e scintillante come lo zampillare dei trilli di Scarlatti.

Complimenti dunque all’Associazione Scarlatti per aver invitato per la prima volta a Napoli Mitsuko Uchida nell’ambito della stagione del centenario della sua fondazione!