Il cuore segreto di Elgar

 di Alberto Ponti

Il grandioso Concerto per violino dell'autore inglese mette in luce una personalità introversa e contrastante ma profondamente appassionata. Nikolaj Szeps-Znaider, solista, tiene inchiodato il pubblico con una lettura maschia e sanguigna. Sul podio dell'Orchestra Rai, Fabio Luisi conferma il suo valore anche in Beethoven.

TORINO, 5 aprile 2019 - Parliamoci chiaro. Da qualsiasi parte lo si osservi il Concerto per violino e orchestra in si minore op. 61 (1910) di Edward Elgar (1857-1934), con il suo connubio molto british tra eclettismo conservatore ed eccentricità, è un'opera che solleva sempre stupore per originalità di concezione, dimensioni e anticonvenzionalità della forma: tra i lavori per violino concertante del repertorio è difficile trovarne uno più esteso e complesso, in grado di mettere a dura prova ogni solista. Questo ne spiega probabilmente la relativa rarità dell'ascolto dal vivo, nonostante l'elevato numero di incisioni discografiche. Nikolaj Szeps-Znaider, interprete del pezzo giovedì 4 e venerdì 5 aprile con l'Orchestra Sinfonica Nazionale diretta da Fabio Luisi, ci scherza addirittura sopra: prima di imbracciare lo strumento per un bis (la Sarabande dalla Partita n. 1 di Johann Sebastian Bach), a rimarcare la fatica dell'esecuzione appena conclusa, si rivolge alla platea con un mix irresistibile di parole e gesti. 'Mendelssohn?' Le sue braccia si allargano un poco, evocando con le mani parallele la figura di un corpo sottile. 'Cajkovskij?' Le sue braccia si allargano di più. 'Elgar?' Le braccia si dilatano al massimo, imitando in modo inequivocabile un corpo ingombrante e incontenibile. Composto per Fritz Kreisler, che ne fu il dedicatario, il concerto trae per l'occasione un ulteriore motivo di interesse dal fatto che il Guarneri imbracciato da Sneps-Znaider è lo stesso strumento con cui il grande violinista austriaco lo eseguì per la prima volta a Londra con successo trionfale.

Tutti questi motivi rendevano l'appuntamento torinese uno dei più attesi della stagione, trovando puntuale conferma in un auditorium gremito in entrambe le serate, con una buona presenza di giovani e giovanissimi: pubblico un po' rumoroso e talvolta non disciplinatissimo ma animato da sincero entusiasmo. La lettura del solista polacco-danese è capace di tenere inchiodata per cinquanta minuti l'attenzione verso una musica che, sotto interpreti di livello non eccelso, scivolerebbe a tratti in un pathos nebbioso e poco coinvolgente. Il suono di Znaider, messa da parte la levigatezza non adatta alla pagina, è maschio e sanguigno, teso come una lama di acciaio, ruvido all'occorrenza. Ogni nota del monumentale primo movimento (Allegro) è come incisa nel marmo: anche nel cantabile secondo tema (una delle migliori intuizioni melodiche di Elgar) la tensione non si allenta un istante, pare di vedere nell'aria la polvere sottile sollevata dai colpi dello scalpello. La direzione magistrale di Luisi, da par suo, asseconda la drammaticità del dialogo scoperchiando frementi passaggi di puro sinfonismo, in un lavoro che prevede da capo a fondo un'orchestra presente e combattiva, a tratti ridondante, quasi dimentica del fatto che tra le sue contorsioni si faccia strada la voce del violino. Dopo l'oasi di lirismo inquieto dell'Andante, il finale, sulla carta il movimento più problematico, con la sua inaudita cadenza accompagnata prima della coda, diventa un concerto nel concerto, illuminato da stati d'animo disparati: un velo di tenerezza avvertibile tra le volute in legato dei passaggi di edonismo virtuosistico, la fierezza dei lunghi accordi all'inizio della cadenza, tra il brusio strisciante degli altri archi, spiccati da Znaider con intonazione lucidissima e penetrante a un tempo, assecondando in pieno l'espressione 'nobilmente', così cara ad Elgar, ricorrente in partitura, l'eroismo sciolto delle ultime battute. Dobbiamo essere grati a questa accoppiata di musicisti: di un brano che, malgrado l'evidente ambizione del compositore, non è tra i massimi capolavori del genere, fa apprezzare tutto il conflitto interiore tra l'intimo e appassionato sentimento e la grandezza epica della costruzione, rendendo giustizia a Elgar, che rimase un romantico anche a Novecento inoltrato, come il capostipite di una scuola che non mancherà di produrre le sue risonanze nelle generazioni successive dei Vaughan Williams, dei Walton, dei Britten.

La Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92 (1811-12I di Ludwig van Beethoven (1770-1827) presentata nella seconda parte rivela una volta ancora le capacità di uno dei direttori italiani di maggior prestigio nel panorama internazionale. La visione di Luisi si distingue, in un'opera come la Settima di cui si pensa di sapere già tutto, per la preziosa attenzione non solo alla vitalità ritmica resa celebre dalla definizione wagneriana di 'apoteosi della danza', ma anche al giusto rilievo timbrico di tutte le voci. Gli aspetti tecnici, dominati con rigore, puntiglio e naturalezza, non indulgono alla perfezione asettica ma sono plasmati al servizio di un fraseggio che riesce a tradurre in immagini vivide la poetica dell'autore.

I controcanti della melodia dell'Allegretto delineano così, sotto l'incedere inesorabile eppure mai soverchiante della figurazione ripetuta dei fiati, tutto l'universo doloroso di uno dei supremi artisti tragici della storia. Allo stesso modo, il versante più dionisiaco degli altri movimenti veloci, staccati, soprattutto l'Allegro con brio conclusivo, ai tempi vertiginosi cui ci ha abituati la prassi attuale, non ha il respiro corto di tanti furiosi della bacchetta ma riesce a elargire, nella gioia in apparenza sfrenata, quel caldo senso di umanità che rimane tra i lasciti impagabili di Beethoven.

Applausi e ovazioni scoscianti nei confronti dei protagonisti. Attendiamo ora di conoscere, nel prossimo concerto, Nikolaj Szeps-Znaider anche in veste di direttore.

foto Studio Più Luce / Orchestra Rai