L'estroversione del mistero

 di Alberto Ponti

L'ultimo concerto della stagione dell'OSN Rai vede il ritorno come solista di Mario Brunello nel Concerto per violoncello di Dvořák e il concomitante debutto di Alpesh Chauhan, protagonista nella seconda parte con una Quinta sinfonia di Šostakovič di notevole potenza sonora ma irrisolta nei suoi conflitti di fondo.

TORINO, 23 maggio 2019 - Al pari di tutti i capolavori, anche il Concerto per violoncello e orchestra in si minore op. 104 (1894-95) di Antonín Dvořák (1841-1904) ha diverse chiavi di lettura, che ne mantengono immutato il fascino nonostante il gran numero di apparizioni all'interno dei programmi sinfonici, vuoi per la sua altissima riuscita artistica vuoi per essere uno dei pochi pezzi per questo strumento e orchestra entrato stabilmente in repertorio. Per la serata di chiusura della stagione 2018/2019 dell'OSN Rai, giovedì 23 maggio, interprete ne è stato Mario Brunello, affiancato sul podio dal giovane inglese Alpesh Chauhan, classe 1990, al suo debutto a Torino. Il solista veneto restituisce un'idea dell'opera alquanto meditativa, smorzando i contrasti tra solo e tutti all'interno del grandioso Allegro iniziale, ma privilegiando la compenetrazione della sua voce, ora calda nell'eloquio, ora elegantemente turbata, con gli altri strumenti all'interno di un dialogo che non prevede quasi mai i momenti di eroico contrasto, di calcato protagonismo che esecuzioni più convenzionali potrebbero invece suggerire. L'originalità di tale visione porta infatti a considerare il violoncello come un 'primus inter pares', una guida che indica il sentiero con composta dignità, anche nei passi impetuosi e appassionati. Brunello è maestro nel fare emergere la poesia intima del secondo tema, introdotto per la prima volta dal corno, nell'ammantare singole note di vibrazioni quasi impercettibili ma capaci di risuonare misteriose nel nostro animo, instaurando segrete e sorprendenti corrispondenze tra dolente inquietudine ed intima felicità. Conferma se ne ha nel secondo movimento Adagio ma non troppo: la drammaticità dell'episodio centrale in sol minore riecheggia, tra le nervose quartine di biscrome sgranate dal solista, il ricordo della calma e luminosa semplicità dell'idea di apertura di clarinetti e fagotti, ripresa dal violoncello con intonazione in grado di espandersi con nobile dolcezza. La direzione di Chauhan, anch'egli formatosi come violoncellista, asseconda la raffinata malinconia distillata da Dvořák nel brillante finale dove l'agone concertistico tradizionale pare liberarsi con maggior veemenza, marcato da un 2/4 felpato ma implacabile, valorizzando con gusto ed equilibrio gli impasti timbrici della partitura. Il Giovanni Paolo Maggini imbracciato da Brunello non perde mai il ruolo di faro attorno al quale ruota la composizione, passando dalla scioltezza e pulizia esemplare del suono (reiterata nell'encore della bachiana Bourrée dalla terza suite), evidente nei frementi ricami sulla melodia d'esordio, alle mezze voci tra piano e pianissimo nelle quali sembra invece spegnersi in sordina il discorso prima di levarsi per un'ultima volta in crescendo su un memorabile si tenuto da cui eromperà improvvisa la breve coda orchestrale.

Gli applausi calorosissimi per entrambi i protagonisti da parte di un pubblico assai numeroso si ripetono nella seconda parte per il solo Chauhan dopo la Sinfonia n. 5 in re minore op. 47 (1937), tra i maggiori contributi di Dmitrij Šostakovič (1906-1975) al genere. La Quinta concertata dal maestro britannico, dal 2017 direttore principale della Filarmonica Arturo Toscanini di Parma, appare precisa negli attacchi, squadrata, incalzante nei tempi. Si avverte tuttavia a tratti la mancanza di un'ipotesi personale di fronte agli enigmi impenetrabili dell'opera, nata nel pieno del terrore staliniano, che non risparmiava attacchi nemmeno agli artisti non allineati con le direttive estetiche del regime. Nessuno saprà mai sondare la percentuale di sincerità e quella di voluta e velata irrisione dell'autore nel parlare di “concreta risposta creativa di un artista sovietico al giusto criticismo”, ma la sinfonia rimane una straordinaria pagina di musica assoluta, le cui antinomie di profondità mahleriana non possono essere risolte con il solo contrasto tra sonorità. Si fatica, nella pur corretta e brillante interpretazione di Chauhan, a cogliere i molteplici accenti del complesso universo di Šostakovič, irradiantesi dal continuo sottile gioco di rimandi tematici attraverso tutti i quattro movimenti. Certo, vi sono punti di esaltante turbinio, grazie all'ottima prova dell'orchestra, nello Scherzo e nell'enfatico finale, altri di dolorosa sospensione, come nell'ampio Largo e nell'estinguersi alle soglie del nulla del Moderato che apre il lavoro, ma al termine si rimane con la sensazione di un cerchio restio a chiudersi, a scapito della perentorietà delle battute conclusive. Quello del grande musicista russo è un universo che tende a rivelarsi poco a poco nel tempo: si pensa di conoscerlo in profondità quando ad una nuova esecuzione può venire messo nuovamente in discussione. Non è forse un caso che la prossima stagione dell'Orchestra Sinfonica Nazionale riprenda a ottobre proprio con la stessa sinfonia sotto la bacchetta di James Conlon. Una conferma dell'attualità di opere capitali, che continueranno sempre a far discutere e a sfuggire alle insidie di letture a senso unico.

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