Un altro stile esotico

di Francesco Lora

La direzione di Zubin Mehta e il pianoforte di Daniel Barenboim si ritrovano al centro di un programma eclettico che, tra Beethoven, Rimskij-Korsakov e Varèse (e Novaro), non solo riconferma l’idiomatismo fonetico dell’orchestra, ma anche lo estende virtuosisticamente oltre ogni previsione.

FIRENZE, 2 giugno 2019 – L’anno scorso, 28 e 30 maggio, i cittadini della musica erano corsi al Maggio Musicale Fiorentino per abbracciare Zubin Mehta: egli che dirigeva ogni giorno musica nuova in una città diversa e presso un’istituzione differente, sempre infaticabile, aveva cancellato mesi e mesi interi di impegni per affrontare a testa bassa malattia e terapie; anzi no: aveva tenuto in agenda due soli appuntamenti, nella sua Firenze, con la sua orchestra, davanti al suo pubblico, affinché nessuno tra essi si sentisse trascurato, e per alleviare e ritrovare, proprio lì, nostalgia e ministero del podio e della bacchetta. Oggi gli ultimi cartelloni internazionali, affollati dal nome di Mehta, mostrano l’avvenuta sconfitta della malattia; e il sostegno all’anziano maestro evolve in festa tra scena e platea, rinnovando, il 2 giugno, nel Teatro del MMF, un rito che tante volte ha reso uniche le edizioni del festival fiorentino e l’investitura della sua orchestra: un concerto sinfonico diretto da Mehta e con, ospite al pianoforte, nulla di meno che l’amico Daniel Barenboim.

Commuove la voglia di musica del direttore onorario a vita del MMF. Al programma già annunciato si aggiunge, giusto all’inizio, Intégrales di Varèse, per il gusto di lavorare da vicino con pochi professori di fiati e percussioni, per quello d’illustrare come la messa a punto timbrica sia essa stessa forma dell’opera, e per quello di leggere e restituire una composizione di rinnovato studio e raro ascolto (musica nata morta, scritta com’è verso il 1960, dice il vicino di posto; invece no: è musica del 1925 e con inaudita prospettiva di modernità). Voglia di musica: la si vede esuberare anche quando Mehta, anziché uscire dietro la camera acustica, si arrampica sullo sgabello da direttore, tra gli applausi a lui e a Barenboim, per non perdersi il bis pianistico – la Ballata n. 1 in Sol minore di Chopin – cantato un metro alle sue spalle. E la voglia di musica non teme l’eclettismo disinvolto quando, a sorpresa, in testa alla seconda parte del concerto, Mehta dà l’attacco al Canto degli Italiani, invitando il pubblico a intonarlo: ché il 2 giugno è anche la festa della Repubblica.

Due i grandi scomparti che formano il grosso del programma: il Concerto per pianoforte n. 3 in Do minore di Beethoven e la suite sinfonica Shéhérazade di Rimskij-Korsakov. Si rimane sbalorditi per il lavoro sul suono condotto da Mehta, sulla scorta di quanto appreso nella sua formazione viennese, e in contrasto con la sfavillante materia di norma preferita da lui stesso. In Beethoven è tutto un gioco di echeggi e ombre, disfide e fusioni neoclassiche e romantiche, timbri precipitati in un centro comune ma da esso costantemente richiamati nella loro insostituibile individualità. Tutto fa corteggio regale al pianoforte di Barenboim: ecco il peso titanico delle mani, la fenomenale risonanza, l’articolazione poderosa e granita, esattissima fin nella figurazione più minuta e capricciosa, con ampio spazio alle inégalités – anche tra una mano e l’altra – ma senza alcuna indulgenza alle flessioni agogiche di comodo. Nell’organismo dell’orchestra del MMF, va da sé che è Mehta la lucida mente; ma è il respirare del pianoforte di Barenboim a normare il dialogo con file e podio.

Lavoro sul suono: l’Orchestra del MMF è stata a lungo cresciuta da Mehta a bagliori e schianti metallici, da un capo all’altro del repertorio, costituendo un idiomatismo fonetico arduo a dominarsi per i successori a quel podio. A rovescio di ogni facile previsione, in Shéhérazade si fa largo un’altra poetica, quasi appositamente messa a punto dopo mesi di raccoglimento: la voce dell’orchestra fiorentina non rinnega sé stessa, ma suona occasionalmente nuova, arcana e soffusa, alonata negli attacchi dietro un velo di leggenda, filtrata come attraverso una nebulizzazione rosata. È un’attuazione inedita, moderata, e perciò singolarmente virtuosistica, dell’esotismo che evoca: un posto in prima fila, per responsabilità attribuitagli e compartecipazione all’idea, è anche in metafora quello di Sergey Galaktionov, spalla dell’orchestra e violino principale. Signore di ogni più fantasmagorica Turandot, da chi se non da Mehta poteva derivare l’indicazione di un altro stile, antitetico, per gioco musicale, a quello del quale è egli stesso il campione?