Infine, Beethoven

 di Stefano Ceccarelli

L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia chiude la stagione sinfonica con un concerto monografico su Ludwig van Beethoven, diretto da Gustavo Dudamel: l’Egmont ouverture, la Quarta e la Settima si succedono una dopo l’altra. Il maestro, bacchetta certamente estrosa, appare, specialmente in apertura di concerto, poco preoccupato di un’analisi profonda delle partiture, mirando più a una lettura complessivamente d’effetto. La Settima, comunque, appare solida e assai buona. Infine, Dudamel viene applaudito e apprezzato, benché – appunto – lasci talune pagine del concerto (in particolare l’Egmont), per così dire, poco approfondite.

ROMA, 17 giugno 2019 – Il concerto di chiusura della stagione sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia vede salire sul podio l’estroso Gustavo Dudamel, un’interessante figura di musicista e filantropo, che molto si batte per i diritti umani e la diffusione della musica come mezzo per un miglioramento sociale e umano. Il programma è monografico su Ludwig van Beethoven: l’Egmont, ouverture in fa minore op. 84, la Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore op. 60 e la celeberrima Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92.

Il concerto si apre, dunque, con l’Egmont, ouverture con cui Beethoven rese omaggio all’amato Goethe. Si tratta di una tipica ouverture beethoveniana, che ricorda per molti aspetti le più famose sorelle del Fidelio. Dudamel ricerca ossessivamente l’effetto e il ritmo, curandosi poco di taluni particolari e, più in generale, del suono stesso dell’orchestra. Ne esce fuori un’esecuzione a tratti poco coesa e quasi ‘lasciata andare’, per così dire. Avrei, insomma, apprezzato maggior attenzione ai particolari di giuntura ritmica fra le parti e alla gestione sonora delle compagini orchestrali. Questi problemi affliggono anche l’esecuzione della Quarta, che comunque segna un sensibile miglioramento rispetto alla precedente ouverture. Dopo l’Adagio d’apertura del I movimento, in ogni caso non ancora centratissimo, soprattutto a livello di tessitura sonora, lo scoppio dell’Allegro vivace segna l’emergere di una prorompente ritmicità, cui Dudamel presta grande attenzione, sentendo assai bene le pulsazioni ritmiche che si ripetono ossessivamente – firma caratteristica della musica beethoveniana. Se nell’Adagio (II) rimane ancora qualche residuo d’impasto sonoro non perfettamente terso, nel Minuetto (III) e nel brillantissimo Allegro non troppo (IV) Dudamel dà il meglio di sé, incardinando bene, a livello agogico, l’energia ritmica e facendoci finalmente percepire più nettamente qualche gentilezza della compagine degli archi opposta ai fiati.

Nel secondo tempo, Dudamel cresce ancora in termini di qualità, donando una buona Settima, certamente il momento migliore dell’intera serata. Fiumi di parole sono stati spesi per tentare di carpire il vitalistico dionisismo di questa sinfonia: Dudamel, da par suo, riesce a trapassare piacevolmente dall’introduzione dello splendido Poco sostenuto, basato su un accumulo progressivo in termini ritmici ma anche timbrico/coloristici, al Vivace del I movimento, che segna un’esplosione cromatico/ritmica che riesce bene, rispettando quella «totalità danzante che non trova ostacoli alla propria ebbrezza» (P. Gallarati, dal programma di sala). Nell’Allegretto Dudamel gioca quasi di fino, finalmente facendoci sentire variazioni gentili di volume, sull’ostinata ed enigmatica pulsazione di questo movimento, un motus perpetuus che ipnotizza nel suo «camaleontico variare di prospettive» (ancora Gallarati); il risultato è certamente apprezzabile. Ormai l’abbrivo giusto è impostato: lo Scherzo (III) esplode vitalistico in tutta la sua energia. Dudamel, inoltre, sta ben attento qui anche all’impasto timbrico del Trio, che è una pastorale rêverie nello stile della Sesta. Il finale (IV), orgiasticamente coreutico, dà modo a Dudamel di sfrenare l’orchestra: apprezzabili le riprese dopo le cadenze d’inganno, che danno modo al movimento di evolversi ancor più in senso puramente ritmico. Il pubblico applaude calorosamente gli interpreti.