Un maestoso Berlioz

 di Stefano Ceccarelli

Sotto gli auspici dell’Ambasciata di Francia e in collaborazione con il Teatro San Carlo e la Polizia di Stato, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia omaggia Hector Berlioz nei centocinquant’anni dalla morte con l’esecuzione della rara e monumentale Grand Messe de morts op. 5. Il maestro Antonio Pappano dirige con energia e precisione una quantità incredibile di interpreti e strumentisti, donando al pubblico qualcosa di raro e grandioso.

ROMA, 10 ottobre 2019 – L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia apre la stagione sinfonica in maniera grandiosa: la monumentale Grande Messe de morts di Berlioz è diretta dal maestro Antonio Pappano con incredibile potenza, con raffinato rigore e incomparabile sensibilità. Corrono i centocinquant’anni dalla morte di Hector Berlioz, un compositore che ha fatto della grandeur francese e dell’elemento fantastico così tipicamente romantico, due delle fondamentali direttrici della sua produzione.

La sala è gremita per l’evento musicale romano. Antonio Pappano alza la bacchetta e ha inizio l’esecuzione di un organismo musicale di incredibile complessità, che non può lasciare sul pubblico che una sensazione di profondo stupore, non foss’altro per il numero esorbitante degli orchestrali e dei coristi impiegati. Berlioz non era certo nuovo all’impiego di organici gargantueschi: non si dimentichi che l’apparato monumentale del regime francese, dopo gli eventi irripetibili e tumultuosi della Rivoluzione, premeva molto sul senso spettacolare – un ritorno ad un gusto quasi barocco, ma amplificato a livelli mai uditi prima di allora. Berlioz è interprete non certo pedissequo di questo spirito, come raccontano bene le pagine di Olga Visentini, nel programma di sala. Pappano dirige una composizione lunga, e che sarebbe potuta risultare ostica a un pubblico poco avvezzo allo stile berlioziano, con vivacità, rispettando due elementi essenziali: la linea architettonica e i particolari. Sembra un discorso banale, ma quando si dirige spesso si perde l’attenzione a una di quelle due direttrici nella lettura di una partitura. Ecco, Pappano le ha perfettamente chiare, dall’inizio alla fine. Si pensi solo all’attenzione con cui armonizza le atmosfere solenni ma quasi impaludate nell’abbondanza di parti vocali dell’attacco della messa, il Requiem e Kyrie. Qui Pappano sbandola tutte le parti vocali con grande maestria, facendo sempre ‘tornare i conti’ con la parte orchestrale. Il coro, poi, (anzi, i cori!): che spettacolo! Si devono tributare molti applausi al coro di Santa Cecilia, congiunto con quello del San Carlo di Napoli. Tutte le parti vocali sono eseguite alla perfezione, generando filati e pianissimi mozzafiato, come fortissimi tuonanti: ma la cosa incredibile è che il coro riesce a delibare, tutto, ogni stilla del concetto musicale berlioziano. Un esempio di come Pappano abbia dovuto anche cavare da una partitura, talvolta ostica in tal senso, un sentore netto di sacro, di trascendente, è certamente nel finale Agnus Dei, dove il maestro riesce perfettamente ad amalgamare gli interventi soffusi del coro con il velo orchestrale che avvolge la preghiera, spesso non facile da domare per l’abbondanza al solito ricca di sfumature timbrica. L’acquatica sezione finale (dal «Te decet hymnus») è di rara bellezza e invita a un’estatica contemplazione dell’arte degli interpreti in sala. Pappano, però, deve fare i conti anche con l’elemento della grandeur, che certo non lo spaventa, vista la sua propensione e sensibilità verso il repertorio tardoromantico. Non potrei fare esempio migliore del Tuba mirum, da Berlioz stesso ricordato come un «terribile cataclisma musicale». Dai quattro spalti alti davanti al palco le bande di ottoni della Polizia di Stato creano un suono che si amplifica a dismisura, evocando le celebri trombe dell’apocalisse; in orchestra risuonano gli ottoni, mentre Pappano orchestra e innalza di volume in maniera sensazionale la massa intera, con il coro che intona perentorio la descrizione dell’apocalisse.

Il concerto è, dunque, un autentico successo: un’apertura magnifica e spettacolare, che non lesina certo momenti di più intima dolcezza, come nel Sanctus, dove il talentuoso tenore Javier Camarena, dalla voce melliflua, ci delizia solcando una linea melodica di ieratica semplicità, che trasporta l’ascoltatore verso un trasognato altrove.

© Foto: Musacchio, Ianniello & Pasqualini