L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Čajkovskij alle origini

di Antonino Trotta

Ancor più suggestivo perché proposto nella sua prima versione, il concerto per pianoforte e orchestra di Čajkovskij segna il punto più alto della serata: Mikhail Pletnev, Kirill Karabits e la Russian National Orchestra elettrizzano il pubblico dell’Associazione Lingotto Musica.

Torino, 24 novembre 2019 – Hans von Bülow lo definì «delizioso da ogni punto di vista», Nikolaj Rubinštejn lo additò come «senza valore, assolutamente ineseguibile». Una cosa è certa: il primo concerto per pianoforte e orchestra op. 23 non ha messo subito tutti d’accordo. Lo stesso autore sembrava non esserne pienamente convinto cosicché la gestazione, avviata dopo il successo dell’opera Il fabbro Vakula, fu un vero e proprio calvario: in fondo Čajkovskij non ha fatto della scrittura pianistica l’altare su cui consacrare il proprio genio musicale e inoltre nutriva non poche riserve rispetto al genere – scrive in una lettera alla mecenate russa Nadežda von Meck: «secondo me il pianoforte può essere efficace solo in tre situazioni: da solo, in una competizione con l’orchestra e come accompagnamento» –. Cosa gli avesse fatto cambiare idea non è dato stabilirlo – e poco conta –, ma la scrittura della parte pianistica, lì nella Russia che esaspera lo stereotipo del concerto romantico per orchestra e virtuoso, doveva aver causato lui più di una nottata insonne. Ferito dal commento dell’illustrissimo Rubinštejn, a cui egli stesso si era rivolto ufficialmente per ottenere feedback circa la propria composizione, ufficiosamente per guadagnare un interprete, Čajkovskij impresse nero su bianco il suo capolavoro (prima versione, 1875) senza cambiarne una nota e senza esserne pienamente soddisfatto. Infatti la versione del concerto che oggi solitamente si ascolta raccoglie i suggerimenti e le postille del pianista strasburghese Edward Dannreuther (seconda versione, 1879) e di Alexander Siloti (terza versione) che sostanzialmente stimolarono la rielaborazione, in maniera comunque circoscritta – figurazioni ritmiche, disposizione degli accordi, tessitura del pianoforte –, proprio dello sviluppo della scrittura solistica – al di là di qualche variazione nelle indicazioni di tempo e andamento come il passaggio da Andante non troppo a Allegro non troppo e molto maestoso nell’introduzione del primo movimento –, limando in definitiva quelle angolosità che avevano offeso in principio il gusto di Rubinštejn.

Sommo conoscitore del repertorio čajkovskijano, Mikhail Pletnev, insieme alla Russian National Orchestra guidata dalla bacchetta di Kirill Karabits, propone per l’Associazione Lingotto Musica la versione primigenia del concerto – peccato però che nel programma di sala non si faccia riferimento ad essa –: i tempi più distesi del primo movimento, gli arpeggi nell’introduzione in luogo dei grandiosi accordi, sembrano a tratti scrostare la superfice del concerto dalla boria vanagloriosa che a volte ne caratterizza l’esecuzione. Si esalta così il carattere prepotentemente romantico e trasognante dell’opera, a cui senza dubbio arride la caratura di un interprete d’oro massiccio: quanto a fraseggio, nitidezza del suono, varietà di tocco e colore, Pletnev compie dei veri e propri miracoli. Ecco allora che lo sfolgorio tecnico, il dominio assoluto della tastiera, non si lascia ammirare solo nelle esaltati valanghe di ottave – dove finalizza sempre un’idea drammatica –, piuttosto si palesa nella cura con cui egli chiude ogni periodo, cesella ciascun arpeggio e ciascuna volata sull’avorio, ponendo ovunque in primo piano la cantabilità del dettato musicale. Va da sé, allora, che il secondo movimento si trasformi in un’oasi idilliaca, quasi stralunata, dove il pianoforte riveste tutti e tre i ruoli a cui, secondo Čajkovskij, era destinato: canta, accompagna, rivaleggia con l’orchestra. Peccato per qualche imprecisione di Karabits negli attacchi della sezione centrale. Quindi l’ultimo movimento condotto sulla cresta di un crescendo emozionale – anche qui balza all’orecchio qualche evidente differenza rispetto all’ultima versione, in particolare nell’apertura di un taglio di sedici battute nella sezione che Čajkovskij definiva “der ferfluchte Stelle” –, reso iridescente da una coda al fulmicotone. Gli applausi per Pletnev sono incessanti ed egli ripaga il pubblico con due bis: un’eccezionale, intensissima, barcarola dalle Stagioni di Čajkovskij e la mazurka op. 67 n. 4 di Chopin.

La seconda parte della serata è dedicata alla sontuosa Shéhérazade op. 35, suite sinfonica di Rimskij-Korsakov. Se nel concerto di Čajkovskij è sembrato quasi che Karabits, schiacciato tra Pletnev e la sua creatura - la Russian National Orchestra –, fosse quasi accessorio dell’esecuzione, qui la personalità del direttore ucraino emerge con più evidente sicurezza. Interpreti sensibili alle screziature sonore di questa forma libera e rapsodica, costruita con brevi cellule tematiche sospinte su un’orchestrazione dalla purezza assoluta, Karabits e la RNO ricostruiscono tutta la suggestione dei paesaggi orientali ispirati da Le mille e una notte. Non tutto procede sempre liscissimo e gli ottoni ogni tanto si perdono in qualche svarione, ma nel complesso la concertazione energica, trascinante, ma non per questo disinteressata alla nuance dell’evocativa scrittura, riesce a guadagnarsi ampi consensi. C’è anche un bis: il valzer dalla suite del balletto Le sette bellezze di Gara Garayev.

Auditorio pieno fino all’orlo, pubblico entusiasta. Bellissima serata.

foto © Pasquale Juzzolino


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