L’alchimista del suono

di Alberto Ponti

Un’interpretazione attenta e raffinata valorizza un repertorio poco frequentato ma di indiscusso valore artistico

Alea iacta est. Dopo un’estate vissuta nel castigo di poter ascoltare pochissima musica dal vivo (e chissà che il distanziamento sociale non abbia portato qualcuno ad abbandonare per una volta l’ascolto digitale e riscoprire la gioia di abbassare le dita sul pianoforte di casa), MITO SettembreMusica ha il merito di provare, con coraggio e inventiva, a rimettere in moto una macchina e un settore duramente provato da mesi di inattività forzata.

Certo, le regole vanno rispettate e la tristezza di vedere semideserte platee un tempo gremite è compensata solo da speranza e fiducia in tempi migliori, ma l’inedita formula dei concerti di questi giorni ha, se vogliamo, i suoi lati positivi. L’assenza di intervalli, per esempio, accoppiata al clima quasi religioso indotto dalla presenza rarefatta del pubblico favorisce la concentrazione su brani eseguiti quasi senza soluzione di continuità nella durata massima di un’ora. Il suono stesso pare espandersi nella sala più diretto e penetrante, come se lo spazio vuoto, invece di marcare una distanza, assumesse la valenza di un ponte invisibile tra l’anima dell’interprete e quella dell’ascoltatore. In ultimo, pur comprendendo come l’abuso di questo termine nella propaganda politica possa prestarsi a facili e spiacevoli fraintendimenti, la scelta di esecutori solo italiani, lungi dall’assumere valenze autarchiche, può essere un’occasione di ribalta per giovani talenti chiamati a esibirsi in una rassegna al cui richiamo hanno risposto anche concertisti di calibro internazionale.

Nel novero di questi ultimi è di Benedetto Lupo, la cui brillante carriera di pianista iniziata nel 1989 con l’affermazione al concorso Van Cliburn lo ha portato a esibirsi su alcuni tra i più prestigiosi palcoscenici al mondo.

L’impaginazione della serata al Conservatorio di Torino prevedeva in apertura le prime due miniature dal ciclo Su un sentiero di rovi (1901-08), seguite dalla sonata 1.X.1905 (nota anche come Nella strada) di Leós Janáček (1854-1928). In queste pagine di espressività immediata, che rifuggono da ogni compiacimento virtuosistico, l’originalissimo tessuto armonico dell’autore ceco è reso da Lupo con un tocco limpido e misurato, che affascina per la varietà di colori di cui ammanta le iterazioni di minime cellule tematiche senza mai perdere di vista l’unità formale dei pezzi. La bellezza ipnotica con cui la mano sinistra scioglie il controcanto sotto la quieta melodia del numero d’esordio (Le nostre sere, in tempo Moderato) non viene meno neppure nel successivo Una foglia nel vento per raggiungere, in una metamorfosi di partecipata adesione emotiva, picchi di asciutta drammaticità nei due tempi della Sonata dedicata da Janáček alla memoria di una giovane vittima di una manifestazione in favore dell’istituzione di un’università nazionale a Brno. Qui l’eloquio si fa acceso, gli stacchi stridenti. Dopo il tempestoso agitarsi del Presentimento, il movimento finale (Morte) si acquieta in un’allucinata berceuse per arrestarsi sulle soglie di un eloquente silenzio in cui Benedetto Lupo, autentico alchimista del suono, immerge l’intero uditorio.

Un aspetto più istrionico dell’interprete si fa strada nel ciclo completo dei 24 preludi op. 11 (1888-96) di Aleksandr Skrjabin (1872-1915), spesso eseguiti, per la diversità stilistica anche notevole di un lavoro composto in un lungo arco di tempo, in selezioni di numeri staccati ma assai meno nella loro interezza. Trovano così spazio nell’insieme andamenti tra il meditativo e il dolente, come nel celebre Allegretto n. 2 oppure nel n. 5 (Andante cantabile), dipinti con notevole effetto di chiaroscuro tra luci ed ombre, contrapposti a momenti di fiera e un po’ scontata tragicità nella scrittura (l’Allegro in si minore, n.6) o di plateale enfasi drammatica (Misterioso in si bemolle minore, n. 16), eppure nobilitati dal solista con la scelta di un suono asciutto e riscattati da un grande rigore nel tempo. Non mancano gli inevitabili richiami di Skrjabin all’immortale archetipo chopiniano, dall’estatico n. 13 (Lento) al luminoso Vivo in fa maggiore (n.23). L’emergere purissimo della melodia nel n. 15 (Lento in re bemolle maggiore) è uno dei vertici della lettura di Lupo, così come nel 19 (Affettuoso) dove la spiccata cantabilità si tinge di venature eroiche e nel successivo 20 (Appassionato, in do minore), capace di lasciare senza fiato per il fulmineo divampare ed estinguersi di un bruciante sentimento.

Tra gli applausi, i due bis proseguono nel nome degli autori in programma: il nono pezzo della raccolta di Janáček (Tra le lacrime), in cui una volta di più si ammira l’efficace contrasto tra registri timbrici, e il brevissimo, sereno preludio op. 16 n. 5 di Skrjabin.