Tre secoli e un violoncello

di Alberto Ponti

Enrico Dindo si esibisce nella sua città d’origine con un programma di notevole fascino e intelligenza che ne mette in luce la straordinaria versatilità

TORINO, 11 settembre 2020 - Nell’impossibilità per il momento di ascoltare dal vivo grandi orchestre a causa della pandemia, uno dei motivi di interesse di questa edizione sui generis di MITO SettembreMusica sono i recital per strumento solo, non circoscritti al pianoforte come spesso accade ma portando in scena una gamma di concertisti di valore di norma chiamati ad esibirsi con ensemble più o meno ampi. Non fa eccezione Enrico Dindo, che abbiamo più volte apprezzato nella città natale sia con i complessi della Rai e del Teatro Regio che nell’ambito della musica da camera. Venerdì 11 settembre il violoncellista si è presentato sul palco del Conservatorio di piazza Bodoni con un impaginato, frutto dello studio solitario degli ultimi mesi, che si snodava lungo un arco temporale di oltre due secoli, dal caposaldo del repertorio bachiano per arrivare alla più stretta contemporaneità.

Dalla memoria (2019) di Carlo Boccadoro (1963) eseguito in apertura è un breve pezzo dalla forte identità melodica dedicato allo stesso Dindo, costruito su un inciso che si muove con commossa tensione dal registro grave a quello medio prima di concludersi come domanda sospesa, a mezza voce. Il titolo vuole alludere al ricordo del trentennale della caduta del muro di Berlino, e nel 2019 è stata composta, pensando alla medesima ricorrenza, anche la Sonatina III di Fabio Vacchi (1949). Il brano, più strutturato del precedente, richiede una notevole abilità virtuosistica senza allo stesso tempo rinnegare un’intrinseca musicalità che l’esecutore riesce a rendere con un’intonazione sempre profonda e poeticamente personale.

Gradevolissima scoperta è la prima Sonata per violoncello solo op. 72 (1960), il cui autore, il russo polacco Mieczysław Weinberg (1919-1996), meriterebbe maggiore fortuna. Nonostante gli evidenti influssi di Šostakovic, la scrittura di Weinberg si sviluppa attraverso uno stile assai originale capace di coniugare melodie di sapore ebraico con un linguaggio tecnicamente agguerrito e variegato. Il talento concertante di Dindo emerge soprattutto nell’Adagio iniziale, sorta di lunga cadenza dall’incedere rapsodico, e nel seguente Allegretto, uno scherzo dalla classica forma tripartita, dove l’alternanza tra arco e pizzicato si amalgama in un dialogo tra timbri carico di suggestione.

Intervallati a queste pagine meno note erano due opus magnum della letteratura quali la Suite n. 1 in re maggiore BWV 1007 di Johann Sebastian Bach (1685-1750) e l’unica Sonata che il leggendario violinista Eugène Ysaÿe (1858-1931) dedicò nel 1924 al violoncello. Affrontata con piglio deciso e tempi serrati, la celebre suite bachiana fila via tenendo tutti col fiato sospeso per venti minuti. Dindo accentua il carattere drammatico, narrativo della musica, non si accontenta dell’algido spiegamento di note corrette, cura la dinamica nel dettaglio, scava sotto la superficie dell’infinito oceano bachiano facendo cantare il legno tricentenario del suo pregiato Pietro Giacomo Rogeri già appartenuto a Carlo Alfredo Piatti. Ne esce un pezzo modernissimo, scandito in modo fedele ed esemplare nella coesione interna dei rimandi tematici tra i movimenti, in cui l’osmosi quasi fisica tra lo spartito scritto e lo strumento chiamato a disvelarne la natura raggiunge risultati illuminanti. Dalla semplicità del fraseggio del Preludio, impreziosito da un caratteristico suono scuro, si percorre una strada di alto impatto emotivo fino alla chiusura della Giga, attraversando territori che sotto l’archetto del solista si fanno metafora dell’essenza stessa del pensiero musicale. Nel Minuetto II pare già di ascoltare Schoenberg con due secoli di anticipo e il violoncello di Bach, pur così riconoscibile nel suo tratto unico e inconfondibile, supera i limiti della materia fisica per diventare voce universale. Perché fra altri tre secoli potranno non esserci più gli strumenti di oggi, potranno essercene altri che nemmeno ci immaginiamo ma di una cosa siamo fin d’ora certi: che su di essi le opere del genio di Eisenach continueranno a suonare nel modo migliore.

L’intensa Sonata di Ysaÿe, ricca di effetti grandiosi in particolare nell’esteso Grave, lento e sempre sostenuto di apertura, evidenza ancora la totale padronanza di Dindo su una pagina di enorme difficoltà e sovente mutevole nell’espressione, eseguita con una tavolozza cangiante di colori e sfumature, al pari dell’encore (il primo tempo della coeva Sonata di Paul Hindemith) attaccato con ammirabile vigore dopo oltre un’ora di concerto ininterrotto, tra gli applausi scroscianti della sala.