Ivo illumina l'Emilia Romagna Festival

di Alberto Spano

Dopo il lockdown, Ivo Pogorelich torna a esibirsi in pubblico e nel cartellone dell'Emilia Romagna Festival spazia fra Bach Chopin e Ravel.

Forlì, 22 agosto 2020 - “Adesso si ferma e se ne va”. Tutti i centonovantacinque fortunati spettatori nella bella Arena San Domenico a Forlì debbono averlo pensato più volte durante il recital di Ivo Pogorelich il 22 agosto per l’Emilia Romagna Festival, una specie di luce adamantina che ha illuminato il complesso cartellone-resistenza della kermesse estiva diretta dal flautista Massimo Mercelli, giunta alla sua ventesima edizione. Oltre che con il frinire delle cicale, per una inusitata congerie di eventi, insidiosi venti vespertini, umidità e brezze varie, Bach Chopin e Ravel lottavano con gli echi ritmati e particolarmente odiosi di lontane feste estive sul fiume, e con inquietanti sirene di ambulanze e polizia, per di più senza l’aiuto della prevista amplificazione per volere dell’intransigente pianista croato. Che abbiamo ritrovato sessantunenne in una forma smagliante, come sempre apocalitticamente concentrato in sé stesso, scontroso e quasi assente, ma sorprendentemente più comunicativo e fluido del solito. Sarà stato forse effetto del dover suonare all’aperto, in un’acustica difficile, saranno forse stati i disturbi esterni, fatto sta che i metronomi staccati al concerto di Forlì erano quasi consueti. In Bach certamente, quello della terza Suite Inglese in sol minore, riletto, dopo trentacinque anni dalla sua celebre incisione, in maniera sostanzialmente identica: asciutto e totalmente senza pedale il Preludio, ma vibrante e con stupefacente impulso motorio; venate di colori inquietanti le altre danze, opulenta e quasi sacrale la Sarabanda. Seguiva la Barcarolle op. 60 di Chopin, recente acquisizione di repertorio del Nostro, drammatica, un po’ schematica e molto poco cullante, poi il Preludio op. 45, come al solito esibito nella sua metafisica bellezza, una nota dopo l’altra suonata con ieratica possanza e concretezza, ma senza sfilacciamento alcuno o perdita di tensione. Infine Gaspard de la nuit di Ravel, suo grande cavallo di battaglia degli anni d’oro. Oltre quarant’anni dopo, quasi nulla della prodigiosa lettura giovanile, virtuosistica e rutilante, è andato perso. Il gioco pianistico di Ivo Pogorelich ancora una volta sembra cavar fuori dalla tastiera del grancoda Steinway sonorità inusitate e quasi livide, con un controllo addirittura smisurato del suono, specialmente in “Le Gibet”, fantasticamente realizzato nella sua ipnotica fisicità. Ivo Pogorelich sfoggia ora una ritrovata attenzione alla bellezza timbrica: lo fa sempre con la sua discutibile lente di ingrandimento che apre e chiude il tactus a seconda del sentimento (l’ultimo Backhaus insegna), ma a Forlì si contiene e risolve l’acribia dell’anatomopatologo in poetico edonismo strumentale, rivelandosi ancora una volta come il principe assoluto del postmoderno pianistico.