Pensier profondo, giusto color

di Lorenzo Cannistrà

Al Festival Pianistico dedicato ad Arturo Benedetti Michelangeli, nella cornice del Teatro Sociale di Brescia, Alexander Lonquich propone un viaggio nell’universo sonatistico di Franz Schubert con l’esecuzione della Sonata D 959, preceduta dai deliziosi Dodici Ländler tedeschi D 790

BRESCIA, 27 settembre 2020 - L’edizione 2020 del Festival Pianistico Internazionale di Brescia e Bergamo regala come sempre una ricca parata di interpreti, dai più giovani e promettenti come Federico Colli e Filippo Gorini (che per la verità sono ben più che semplici “promesse” del pianismo italiano), ai più stimati e affermati, quelli di cui, per intenderci, non conviene perdersi l’esibizione. Tra questi Boris Petrushansky e, appunto, Alexander Lonquich, che ha suonato il 27 settembre un programma interamente schubertiano al Teatro Sociale di Brescia.

Quest’anno il Festival è dedicato infatti non solo a Beethoven, come poteva essere prevedibile, ma alle “vite parallele” di Beethoven e Schubert, separati da ventisette anni d’età, ma la cui morte quasi contemporanea “chiuderà l’epoca della cosiddetta classicità viennese”, come sottolinea Piero Rattalino nelle note dedicate alle “vite parallele” dei due compositori.

Un vuoto, quello ricordato da Rattalino, difficilmente colmabile dal mondo musicale viennese, che si sarebbe maggiormente dedicato alla musica leggera. E non vale a colmarlo il fatto che Schubert, a dispetto della sua breve vita, sia stato uno dei compositori più prolifici che sia esistito, nè è di aiuto la considerazione che nelle sue ultime opere Schubert appaia quasi presago di una fine imminente. La perfezione e la compiutezza della sua ultima produzione non può far dimenticare che, secondo i dati storici e analitici in possesso dei musicologi, proprio nell’ultimo anno di vita stava per aprirsi una nuova e imprevedibile svolta stilistica nella sua musica.

Il concerto si apre con i Dodici Ländler tedeschi D 790, pieni di fantasia e sorprese ritmiche, restituiti da Lonquich come avvolti dall’intima atmosfera dei salotti d’amici che Schubert frequentava.

Dopo la breve parentesi di (raffinata) Salonmusik, il pianista si immerge nella grande Sonata D 959.

Le ultime sonate di Schubert sono da molti anni un terreno di caccia privilegiato per Alexander Lonquich, che è ormai universalmente noto per l’approccio intellettuale e stimolante ai capolavori soprattutto di Mozart, Beethoven, Schumann e Schubert.

Rispetto ad alcune registrazioni in studio, l’interpretazione di questa sera rivela come Lonquich non si sia fermato nella ricerca del significato profondo di questa musica, ma continui ad interrogarla con risultati fecondi. In particolare, colpisce come il pianista tedesco esasperi il carattere improvvisatorio della scrittura schubertiana. E se Schubert “sogna anche quando, eccezionalmente, costruisce” (diceva Alfred Brendel), la sonata D 958 e finanche la D 960 presentano una linearità, una consequenzialità sconosciute alla D 959, in cui le continue cesure, le intromissioni di materiale motivico apparentemente estraneo, gli abbozzi, i tentativi (tanto detestati da Glenn Gould), le riproposizioni dei vari temi, danno più l’idea di un vagare e perdersi in un bosco incantato, che di una costruzione solida e perentoria. Sembra proprio questa la cifra che Lonquich abbia inteso conferire all’intera sonata. E sono molteplici i segni di questa idea forte.

L’incipit del primo movimento è quasi senza rigore ritmico: gli accordi si susseguono uno dietro l’altro come se scaturissero dalla vena del momento, quasi come se l’interprete non ricordasse bene cosa venga dopo, salvo poi a risolvere l’apparente impasse in modo del tutto naturale. Le scalette, gli arpeggi e le varie figurazioni non hanno baldanza, nè robustezza ostentata. Le terzine partono, ma non sembra del tutto sicuro dove vadano a parare, mentre le figurazioni arpeggiate si ripiegano rapidamente su se stesse. Il breve episodio in quartine (battuta 51) che precede l’apparizione del secondo tema vero e proprio, è invece inaspettatamente squillante, e tale rimarrà anche quando farà nuovamente capolino prima della chiusura dell’esposizione. La transizione, brillante e tecnicamente ardua, non è risolta con quadratura ritmica, ma procede a scatti, nervosamente. Infine, ed è il dettaglio che più mi ha impressionato anche per la libertà di lettura, vi sono due momenti di stasi estremamente suggestivi durante la declamazione del secondo tema: si potrebbe addirittura pensare che Lonquich inserisca due brevi corone, non scritte. In ogni caso l’effetto è indimenticabile. Per contrasto, la sezione di sviluppo e la coda si presentano entrambe aliene da questo opprimente senso di incertezza. Nella prima Lonquich è consapevolmente più attento ad esaltare la bellezza del gioco a due voci, piuttosto che a soffermarsi sull’incertezza armonica (maggiore/minore) che caratterizza tutta la sezione. La coda è una perla di sonorità affettuose, qualcosa che riecheggia una ninna nanna, tra accordi soffusi e staccati discreti, quasi attutiti. Gli arpeggi conclusivi preannunciano come meglio non si potrebbe la coda dell’intera sonata.

La prima parte dell’Andantino è caratterizzata da un andamento quasi claudicante (dovuto al prolungamento del primo ottavo di ogni battuta), e dall’uso estremamente parco del pedale: ne scaturisce un’atmosfera rarefatta, più inquietante che rassegnata. Più convenzionale e tutto sommato “ordinata” è l’interpretazione della folle sezione centrale.

Lo Scherzo è condotto con ammirevole coerenza interpretativa. Infatti anche in questo caso il ritmo ternario presenta una leggerissima, voluta esitazione tra il primo e il secondo quarto delle prime battute, mentre nel Trio Lonquich svela lo stretto, quasi genetico legame con il già citato incipit del primo movimento.

Infine, l’ampio Rondò sembra discostarsi dalle inquietudini e dagli intenzionali incespicamenti dei precedenti movimenti. I vari temi si distendono con placidità e riconquistata calma interiore, anche se Lonquich non rinuncia all’uso di un’agogica che increspa felicemente l’uniformità ritmica. Ben realizzata la concitata sezione centrale, in cui il pianista adopera pochissimo pedale, facendo risaltare ogni minima legatura, staccato o pausa, come dettagli illuminati da una potente luce.

Due i bis concessi, e la scelta dei brani non mi sembra casuale.

L’Improvviso op. 36 di Chopin, primo dei bis, è una delle opere più raffinate del compositore polacco. Al mio orecchio, la ripresentazione del tema principale con diversi accompagnamenti ritmici, accosta quest’opera al Rondo della D 959. L’interpretazione di Lonquich sembra quasi farci pensare che egli consideri il polacco quale suo compositore d’elezione, talmente giusta e centrata è la sua musicalità. Perfetta è la realizzazione anche di alcuni particolari quali le volatine inserite nell’esposizione del tema principale, mentre strabiliante è l’abilità nelle rutilanti quartine della parte finale, eseguibili in quel modo solo con una tecnica di prim’ordine.

Il secondo bis è il Rondò dalla Sonata op. 90 di Beethoven, per il quale basti dire che si tratta probabilmente del movimento di sonata più schubertiano che Beethoven abbia composto, ed è reso da Lonquich con grazia e spirito, per l’appunto, schubertiani.

Si conclude così, tra scroscianti applausi e ripetute chiamate sul palco, una serata dedicata alle “vite parallele” dei due grandi compositori. Nelle già citate note introduttive al Festival, Rattalino paragona argutamente la vita di Schubert a quella, sostanzialmente, di un bohémien, “una specie di Schaunard che strimpella il pianoforte per condurre a morte certa il pappagallo di un rompiballe inglese”. Questa sera Alexander Lonquich ci ha ricordato, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che Schubert è un prezioso scrigno dove abbondano anche il “pensier profondo” e il “giusto color” declamati da Colline e Marcello, gli altri due compagni bohémiens di Schaunard.