L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Fantasia cartesiana

di Mario Tedeschi Turco 

L'apertura della stagione sinfonica della Fondazione Arena di Verona celebra i duecentocinquant'anni dalla visita di Mozart alla città e dalla sua affiliazione alla locale Accademia Filarmonica. Direttore e concertatore esemplare è Alexander Lonquich.

VERONA, 10 gennaio 2020 - Era il 5 gennaio del 1770, quando il quattordicenne Mozart si esibì in concerto presso l’Accademia Filarmonica di Verona, in una serata memorabile che gli fece raccogliere lo sbalordito entusiasmo degli accademici e del numeroso pubblico, nonché, l’anno successivo, la nomina a Maestro di Cappella dell’antico sodalizio. (En passant, giova ricordare a certi sprovvedutissimi revisionisti che recentemente hanno negato tale affiliazione, scrivendo che della nomina di Mozart non c'è registrazione ufficiale tra gli atti di Verona, che se si fossero scomodati per raggiungere la biblioteca Filarmonica l’avrebbero potuta facilmente trovare. Non solo, ma una fotografia del Registro era stata pubblicata già nel 1977, come si può vedere nella foto che alleghiamo a questo articolo). A 250 anni di distanza, una lodevole collaborazione tra l’Accademia Filarmonica, l’amministrazione comunale, la Fondazione Arena e la Fondazione Cariverona ha voluto celebrare quel soggiorno mozartiano con una mostra documentale presso la locale Biblioteca Civica e con tre concerti dedicati. L’ultimo tra questi ha visto quali protagonista l’orchestra dell’Arena di Verona e Alexander Lonquich, nella doppia veste di pianista e direttore.

l'atto di affiliazione di Mozart

Ad aprire il concerto, un’energica esecuzione dell’Overture dalle Nozze di Figaro, ottimamente sintonizzata sull’elemento cinetico/drammatico, rilevato non solo dall’agogica spedita senza essere affrettata, ma soprattutto da un gioco continuo di nuances dinamiche, di rapidi crescendo e diminuendo che hanno restituito la ricca tavolozza sonora della partitura con proprietà stilistica non disgiunta dall’umorismo sottilmente irrequieto che è cifra fondamentale del testo.

Centro del concerto è stata l’interpretazione del Concerto per pianoforte e orchestra n. 27, K. 595. Il magistero di Lonquich in questo repertorio è incontestabile, ed è fatto insieme di precisione cartesiana, di fantasia nel fraseggio, di profondità nella concezione/produzione del suono. Estremamente parco nell’uso del pedale, Lonquich in modo particolare ha rilevato alla massima scintillante possibilità di risonanza le progressioni sulle semicrome del pianoforte sostenute dai pizzicati di violini e viole, e poi di viole, violoncelli e contrabbassi, che costituiscono dell’Allegro iniziale una squisitezza timbrica che testimonia oltre tutto il legame perfetto, l’integrazione organica tra solista e ensemble in un unicum sinfonico restituito con pregnante eloquenza. Ancora, l’andamento da recitativo dato al Larghetto ha evocato un lirismo malinconico trattenuto, un’effusione di pathos che è giunta immacolata grazie al controllo realmente classico del canto, oltre tutto ottenuto con un bellissimo jeu perlé, grazie al quale emozione e costruzione razionale si sono udite con risalto perfettamente equilibrato. Del resto, basta osservare il corpo di Lonquich in azione per vederne il polso morbido, l’azione digitale senza inarcamenti del busto né peso eccessivo nell’avambraccio, in una compostezza cui ha fatto da complemento l’esattezza ad un tempo sobria e di grande impulso ritmico con la quale si è alzato e risieduto ogni qual volta l’orchestra andava presa per mano nei passaggi di suo esclusivo appannaggio. Così, anche l’Allegro conclusivo in 6/8, rondò basato su un motivo molto semplice che Mozart utilizzerà anche nel Lied Sehnsucht nach dem Frühling, ha evitato cadenze popolaresche per concentrarsi, ancora, sul nitore della forma, contesta d’entusiasmo danzante tanto quanto di rigore costruttivo, andando a costruire quella che potresti definire una metafisica del suono puro, che forse è la scelta più appropriata per restituire l’autentico tardo Mozart: né aduggiato da clangori romantici fuori testo, né ingessato da leziosità galanti del tutto superate. Un K. 595 ideale, insomma, anche per l’ottima resa dell’orchestra areniana.

Meno ideale, ci permettiamo di notare, la Jupiter conclusiva: Lonquich, pur lavorando con gli strumenti moderni, adotta assai opportunamente talune soluzioni storicamente informate, soprattutto nello scarso vibrato degli archi, nei piccoli staccati, nel fraseggio spesso in staccato lungo su porzione d’arco al mezzo e con fluttuazioni dinamiche contrastive molto accentuate. L’orchestra ha risposto bene con archi, legni e corni, ma non è stata impeccabile nelle trombe, spesso di volume eccessivo e di timbro decisamente non cristallino, e i timpani hanno risuonato con una certa qual rude pesantezza. Inoltre, il tempo staccato per l’Andante ci è parso decisamente troppo rapido in rapporto allo stacco scelto per l’Allegro vivace d’inizio. Buona comunque la resa contrappuntistica del Finale e complessivamente appagante l’intera esecuzione.

Bis offerti dal solo pianista, un Minuetto mozartiano e uno sbalorditivo Impromptus n. 2, op. 36 di Chopin, grazie al quale possiamo dire che Lonquich non è esclusivamente il custode peraltro aggiornatissimo della migliore tradizione classica tedesca, ma anche all’occorrenza un visionario, che del romanticismo sa distillare l’essenza demonica, d’introspezione lacerata: come ha fatto, a puro titolo di esempio, con le venti battute di transizione armonica (Re maggiore da Fa diesis maggiore) prima della seconda modulazione in Fa maggiore dell’in tempo, con le sue terzine al basso «ondulatorie», per riprendere l’aggettivazione che Nietzsche propose per la prosa di Goethe. Un canto assorto, inquieto e interrogativo, meno tragico di altri eppure in fondo più enigmatico, in un’esecuzione da prendere e custodire nella mente e nel cuore per sempre.

foto Ennevi


 

 

 
 
 

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