Un Cesare barocco

 di Stefano Ceccarelli

Nella splendida cornice del Teatro Argentina, , per la stagione dell'Accademia Filarmonica Romana, Raffaele Pe, controtenore di vaglia, propone un interessantissimo programma che ruota attorno alla figura di Giulio Cesare: Giulio Cesare. Un eroe barocco. Le arie e le ouverture interpretate dallo stesso Pe e dall’ensemble La Lira di Orfeo, di cui è fondatore e direttore, sono da opere di Giacomelli, Pollarolo, Händel, Bianchi e Piccinni. Il concerto è un vero successo.

ROMA, 23 gennaio 2020 – Il fenomeno di renaissance che hanno conosciuto diversi compositori, per vari motivi obliati nel corso del tempo (per esempio, Rossini o Donizetti), e le cui opere sono ora stabilmente in repertorio, è ciò che sta ora, fortunatamente, riguardando molto del repertorio scritto per i celeberrimi castrati del XVIII secolo. L’idea di Raffaele Pe, contraltista e fondatore dell’ensemble La Lira di Orfeo, si inscrive, dunque, in una ben chiara temperie, assai proba per gli studi musicali come per il piacere di chi ascolti queste riesumate perle. Pe, con un intento monografico, sceglie di recuperare la figura di Giulio Cesare, per com’era visto nella produzione operistica del XVIII sec.: ecco, appunto, nascere il suo recente CD (Giulio Cesare. A Baroque Hero leggi la recensione), che è in sostanza il programma del concerto odierno. Un Cesare innamorato, colto nei suoi scatti di ira, di contemplazione, come pure di indecisione, nella sua umanità sublimata nell’idea teatrale del personaggio storico, colta, naturalmente, attraverso le convenzioni musico-drammaturgiche dell’epoca.

Il concerto è ben pensato. L’ensemble La lira di Orfeo, specializzato nel repertorio dell’epoca (i membri suonano, inoltre, strumenti di foggia antica), esegue a cadenza regolare delle sinfonie di varie opere, inframmezzando le esibizioni di Pe. S’inizia proprio con quella dal Cesare in Egitto di Geminiano Giacomelli (1736), ben concertata, che prelude all’entrata in scena di Pe con un’aria dalla medesima opera, «Il cor che sdegnato». Naturalmente, le vicende che legano Cesare all’Egitto, in particolare la sua relazione con Cleopatra, furono assai apprezzate come soggetti melodrammatici all’epoca. Pe sceglie in apertura due arie in cui possa dar sfoggio dello squillo della voce, dell’energia di emissione, come pure della pulizia dei passaggi. Sia l’aria di Giacomelli, infatti, che la successiva, «Sdegnoso turbine» di Francesco Pollarolo (da un quasi omonimo Giulio Cesare in Egitto), mostrano sùbito di che pasta è fatto Pe, che si scopre (almeno per me) anche eccellente presentatore, spiegando di volta in volta ciò che va a interpretare.

La voce di Pe è morbida, ma ricca di armonici, piena, squillante, talvolta persino stentorea – cosa rara per i controtenori. Certamente, l’acustica dell’Argentina e il piccolo ensemble degli strumenti hanno contribuito a esaltare al massimo la voce, ma i meriti artistici di Pe sono, a mio avviso, indiscutibili. Il suo maggior talento, comunque, risiede nella sciolta musicalità della sua frase, sempre pregna del senso di ogni singola nota. Dopo la sinfonia dal Giulio Cesare in Egitto di Georg Friedrich Händel (il più celebre fra quelli in serata), Pe esegue uno dei pezzi forti del concerto, l’aria «Va tacito e nascosto», che, per il suo tema venatorio, presenta un dialogo fra la voce del contraltista e di un corno. Pe qui mostra tutte le sue abilità tecniche, soprattutto nelle sezioni di puro melismo e nella parte di cadenza con l’accompagnamento del corno. Sempre dalla medesima opera segue il duetto «Son nato/a a lagrimar», che Pe canta assieme alla brava Raffaella Lupinacci. L’intesa fra i due è ottima: le voci si amalgamano, si perdono quasi l’una nell’altra nel mare dei commossi accenti. Del genere esplosivo, tutto a fior di labbra, con sfoghi di melismi, è l’aria «Al lampo dell’armi», l’ultima della serie dal Giulio Cesare di Händel, che Pe esegue con piglio smagliante. Ancora, poi, un intermezzo orchestrale, la sinfonia da La morte di Cesare di Francesco Bianchi: probabilmente, la più interessante fra quelle presentate, in particolare per la ricchezza di effetti e colori, tutti colti assai bene da La Lira di Orfeo. È il momento di Niccolò Piccinni, il suo Cesare in Egitto, l’aria «Spargi omai di dolce oblio». Si può ammirare, qui, l’uso, con arte, della lenta linea vocale, lirica: Pe sa delibare la bellezza dei colori, dei giochi del fraseggio, in questa preghiera al sonno, che possa placare le angosce del cuore. Il concerto si chiude con l’esecuzione di «Saprò d’ogn’alma audace» da La morte di Cesare del già citato Bianchi. Penso che Pe abbia scelto proprio quest’aria in chiusura giacché attesta molto bene le due doti essenziali del canto controtenorile: lo squillo energico e il momento lirico-distensivo. L’aria è tripartita e inizia e termina, appunto, con sezioni ricche di energia, dove Pe conferma la brillantezza della sua voce; ma la parte centrale è costituita da una sorta di oasi lirica in cui il contraltista culla la sua voce al trapunto velo del delicato accompagnamento strumentale. Insomma, un finale che mostra un po’ tutto ciò di cui è capace l’artista e il suo ensemble. Dopo ricchi applausi, Pe bissa il duetto händeliano («Son nato/a a lagrimar») assieme alla Lupinacci e, dulcis in fundo, regala una commovente versione della celebre aria, del pari a firma di Händel, «Lascia ch’io pianga», cioè la versione del Rinaldo. Pe lascia il pubblico estasiato con un sapiente gioco di fiati (stupenda la ripresa in sottovoce), di messe di voce, di colori calibratissimi. Un eccellente modo per congedare il pubblico.