Matrimonio à la mode

di Antonio Ponti

La ripresa subalpina del capolavoro comico di Domenico Cimarosa premia un sestetto vocale ben assortito e l’indovinata cifra registica di Pier Luigi Pizzi

TORINO, 15 gennaio 2020 - Il ciclo di sei dipinti Le marriage à la mode (1743-45) di William Hogarth fu un autentico tormentone del Settecento. Da questi soggetti si trassero per tutto il secolo innumerevoli litografie destinate a inondare l’intera Europa e ricoprire le pareti delle abitazioni di coloro che cavalcavano lo spirito e la moda del tempo. Domenico Cimarosa, napoletano di nascita e formazione, cosmopolita per carriera attraverso i vari Stati della penisola con puntate oltre le Alpi sulla direttrice Vienna – Varsavia – San Pietroburgo, andò quindi a colpo sicuro nel musicare il libretto di Giovanni Bertati tratto dalla commedia inglese The clandestine marriage ispirata proprio alle scene pittoriche di Hogarth. Gli spettatori dell’epoca erano certo in grado di cogliere al volo, e di apprezzarne la spassosa caricatura imbastita dal compositore, l’autentica ossessione del borghese di successo di conquistarsi un titolo nobiliare. Oggi, tramontata in gran parte la nobiltà, può dirsi tramontato anche il sogno borghese di imitarla. E qui si colloca il vero colpo di genio dell’allestimento di Pier Luigi Pizzi, ripreso dalla recente produzione per il Festival della Valle d’Itria, che traspone l’azione in un interno molto contemporaneo, dove troneggia il colore bianco e si respira l’idea fissa del padrone di casa di esibire status ed ego attraverso le opere degli artisti più affermati (e costosi) degli ultimi decenni. Così, tra un Fontana, un Burri, un Castiglioni a far da sfondo a un open space da ‘Architectural Digest’ con le poltroncine di Marcel Breuer in rigorosa simmetria rispetto alla vetrata centrale a tutta altezza, va in scena l’ossessione ben più attuale di confermare al mondo esterno pretese intellettuali e potenza economica con oggetti feticcio facilmente riconoscibili. E se la propria figlia avrà in sorte un matrimonio aristocratico sarà ulteriore conferma della puissance de l’argent ormai spoglia di timori reverenziali. Vanno in questa direzione pure i costumi, curati dallo stesso Pizzi, che declinano i canoni dell’abbigliamento di alta gamma secondo la pretesa, anch’essa attualissima, di esorcizzare l’inevitabile passare degli anni. Non è un caso che i quattro giovani sul palco (Carolina, Elisetta, Paolino e Robinson) siano improntati a un’eleganza raffinata e gradevole mentre una maggiore eccentricità nel vestire identifica l’attempata zia vedova Fidalma (che tra l’altro, alla sua età, si mette in testa di voler prendere marito!) e il ricco papà Geronimo, in sgargiante completo giallo e scarpe rosse in tinta con la camicia.

Il meccanismo musicale di Cimarosa funziona, dopo oltre due secoli, in modo ancora perfetto, grazie a un intuito teatrale formidabile sorretto un’inventiva che, pur ricalcando nella linea melodica stilemi tradizionali e ben distanti dagli accenti di un Mozart, si rivela invece inesauribile nel trattamento e nel cesello orchestrale, tanto da anticipare il precocissimo Rossini già in agguato dietro la porta. Il giovane Nikolas Nägele, classe 1987 e attualmente di casa alla Deutsche Oper berlinese, si fa notare per una direzione attenta al particolare e rispettosa della partitura, con una buona messa a punto delle dinamiche e un ottimo tempismo nel riprendere le voci negli episodi frenetici e concitati. Manca al podio un briciolo di verve tutta italiana, senza la quale i passi più brillanti rischiano di risuonare come un poco prevedibili perdendo di forza in quella freschezza contagiosa che fin dalla prima rappresentazione è il segreto del successo del Matrimonio segreto e che tanto impressionò anche Stendhal.

Al sestetto di cantanti, ben congegnato e calibrato sui diversi piani timbrici, va il plauso per la tenuta e la capacità di amalgamare insieme le voci nei pezzi di insieme in un titolo in cui, in aggiunta ai due impegnativi finali d’atto, i duetti, terzetti e quartetti sopravanzano le arie solistiche.

Carolina (interpretata da Carolina Lippo), sposata in segreto con Paolino e oggetto delle mire del conte Robinson, si dimostra un soprano dall'emissione robusta ma agile nei passaggi di maggior virtuosismo, con qualche lieve fatica nelle puntate del registro acuto. Entra nel giusto clima civettuolo a partire dall’introduzione (‘Cara non dubitar’ in duetto col tenore) e un indubbio talento attoriale la asseconda nei momenti di protagonismo personale, a cominciare dal cantabile ‘Le faccio un inchino’ seguito dalla stretta ‘Sua serva non sono’ condotta sul filo di un’irresistibile grazia leggera e provocante.

Marco Filippo Romano è un basso assai versato a parti come quella di Geronimo: espressione mobilissima e vivace, rispetta alla perfezione lo stereotipo del genitore duro a comprendere le macchinazioni che lo circondano. L’aria di esordio ‘Udite, tutti, udite’ gli consente di sfoderare a piene mani i suoi mezzi all’insegna di un canto ironico e graffiante, senza mai abbandonarsi all’eccesso e al facile effetto, che gli consente di emergere in piena statura nei concertati.

Il Paolino di Alasdair Kent, oggetto delle mire di Fidalma prima di vedere ristabilita l’unione con Carolina, rivela a tratti un fraseggio un po’ acerbo, affiancato da un timbro tenorile chiaro e sottile,  a suo agio nel versante più patetico che spiritoso, esibendo nella celebre aria ‘Pria che spunti in ciel l’aurora’ una piccola perla di nobiltà sentimentale.

Il conte Robinson si avvale dell’esperienza del baritono austriaco Markus Werba, già apprezzato Papageno nella Zauberflöte del Regio del 2017. La performance da sposo designato di Elisetta, prima ignorata in favore dell’attraente Carolina e poi oggetto di un clamoroso ripensamento nel finale, appare talvolta ruvida nella linea vocale seppur sostenuta da un temperamento teatrale innato. Applausi a scena aperta dopo la cabaletta di bravura ‘Quando poi non lo credete’.

Completano il cast il mezzosoprano Monica Bacelli (Fidalma), a cui va ascritta una bella prova di attrice con un rendimento che migliora man mano che si sale verso la tessitura acuta, ed Eleonora Bellocci. Il giovane soprano toscano disegna con Elisetta un personaggio completo, capace di attraversare i vari stati d’animo (sogno e delusione, boria e allegria) con flessibilità e profondità espressiva, elastica e sicura nelle colorature, in crescendo fino all’aria ‘Se son vendicata’, intrisa di amabile volubilità.

Uno spettacolo da vedere e ascoltare, con il pubblico della prima, lievemente ridotto rispetto a titoli di maggior popolarità, entusiasta e generoso nei confronti di tutti gli interpreti.