Una Carmen in rosso e nero

di Luca Fialdini

Dopo i successi di Ravenna e Ferrara, la Carmen firmata Ravenna Festiva arriva al Teatro del Giglio. Convince e affascina la lettura del regista/baritono Luca Micheletti, che nelle tappe precedenti aveva vestito anche i panni di Escamillo.

LUCCA, 21 febbraio 2020 - Anche nella stagione 2019/2020 si rinnova il sodalizio tra il Teatro del Giglio e il Ravenna Festival, che quest’anno porta sulle tavole dello storico teatro lucchese la Carmen di Georges Bizet. Il terzo pannello della “Trilogia d’Autunno” - il progetto ideato e a cura di Cristina Mazzavillani Muti - ci conduce al sapore iberico della più famosa novella di Prosper Mérimée e già tanto basterebbe per dare per assodato di ritrovare sulla scena la luce, il calore e il colore che questa suggestione da romantico ‘800 ci spinge a rievocare, una suggestione che viene spazzata via dalla visione del regista Luca Micheletti: la levata del sipario rivela una scena composta da un unico, cupo fondo nero. Una tela su cui Micheletti è libero di gestire colori e sfumature, ora a piccole campiture, ora con pennellate più robuste; su tutti spicca l’uso del rosso, che non è solo il colore del sangue: il rosso è sensualità, è dolore, è potere, è pericolo, è terrore, è fuoco. È il colore di un’aggressività che può essere espressa o subita, è il colore di una selvaggia indipendenza intrappolata dalla gabbia monocromatica del nero. Rinunciando a un’iconografia tradizionale, nella sua Carmen Luca Micheletti riporta alla luce lo spirito autentico del dramma di Bizet, una torbida storia di annientamento e dissoluzione, dove dominano assai più le ombre della luce; così facendo, Micheletti si appropria di tutto il potenziale di una drammaturgia troppo a lungo soffocata da nastri e fiori nei capelli. Di inestimabile aiuto alla lettura (tutt’altro che in contrasto con il testo originale) di Micheletti le strepitose e complesse scene di Ezio Antonelli e i costumi di Alessandro Lai, splendidi nella loro selezionata essenzialità, ma soprattutto l’eccellente disegno luci di Vincent Longuemare.

Meno convincente, invece, la bacchetta di Vladimir Ovodok: il risultato globale è senz’altro positivo, ma viene penalizzato dalla scelta di alcuni tempi (spesso troppo lente o davvero troppo veloci, come nel caso del quintetto del secondo atto Nous avons en tête une affaire, tanto da mettere in difficoltà i cantanti) o da alcune decisioni quanto meno bizzarre, una su tutte il far eseguire l’abbellimento della Marche des Contrebandiers inspiegabilmente sul battere e non sul levare. Al di là di questo, la sua direzione è troppo poco sanguigna per un titolo come Carmen e per un pensiero drammaturgico come quello impostato da Micheletti. L’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, al contrario, è come sempre una sicurezza, ma forse risente ancora del recente viaggio: colori e forma mentis ci sono, quel che manca all’inizio è la tipica compattezza della Cherubini.

Assai deludente è purtroppo la performance del Coro Luigi Cherubini e del Coro Lirico Marchigiano Vincenzo Bellini, guidati da Antonio Greco: laddove Bizet richiede una trama vocale della stessa raffinatezza di un’organza, qui si risponde con una pastosa pesantezza, dove il piano suona comunque forte. Vera gemma della rappresentazione - invece - il Coro di Voci Bianche del Teatro del Giglio e Cappella Santa Cecilia, diretti da Sara Matteucci, mirabile per precisione e capacità di amalgamarsi egregiamente con l’impasto orchestrale, oltre che per la disinvoltura sulla scena. Tra tutte queste compagini presenti sopra e sotto il palco, non bisogna dimenticare il corpo di ballo: i DanzActori Trilogia d’Autunno e la loro coreografa, Lara Guidetti, sono una nota di pregio.

Notevole il cast coinvolto in questa produzione, in cui spicca anche un ruolo parlato che spesso viene tenuto in secondo piano ma che qua è stato posto direttamente sotto i riflettori, vale a dire quello di Lillas Pastia, che qui ha le fattezze dell’istrionico Ivan Merlo: per quanto le sue entrate possano essere limitate, è in grado di attirare sempre su di sé l’attenzione del pubblico.

La grande cura posta nel selezionare anche i comprimari (è il caso di Yulia Tkacenko e di Ken Watanabe, rispettivamente una mercante e uno zingaro) fa sì che la sospensione dell’incredulità non venga mai meno e che sia garantita dalla prima all’ultima nota una solida tenuta della realizzazione drammaturgica. Lo stesso dicasi per i meno marginali militari Adriano Gramigni (Zuniga) e Christian Federici (Moralès) e contrabbandieri Rosario Grauso (Le Dancaïre) e Riccardo Rados (Le Remendado). Una menzione speciale la meritano senz’altro Mercédès e Frasquita, interpretate rispettivamente dalle brave Francesca di Sauro e Alessia Pintossi (che meriterebbe di essere ascoltata in ruoli più complessi). Buono l’Escamillo di Andrea Zaupa, ma l’interpretazione è poco misurata: va bene il tratto sanguigno, come si diceva sopra, ma questo non deve spingere ad adottare un’emissione vocale a tratti sguaiata.

Eccellente Elisa Balbo nel ruolo di Micaëla. La sua vocalità flessuosa, ma sorretta da un fuoco sottile (e con la possibilità di un piano capace di far stare con il fiato sospeso un teatro intero), ben si sposa con un personaggio dal potente dualismo: candida e innocente, certo, ma di una personalità tanto intensa da poter rivaleggiare colla stessa Carmen. Fin troppo spesso Micaëla è stata associata a una figurina spenta e di poco interesse; l’interpretazione di Elisa Balbo ha finalmente restituito a Micaëla lo spessore che di solito le viene negato.

Parlando di spessore, ci si sarebbe attesi maggior spessore proprio da Don José: il tenore Antonio Corianò ha dei guizzi interessanti, ma nel complesso non riesce a brillare come potrebbe, complice forse una certa tensione (a livello interpretativo, il quarto atto è stato indiscutibilmente il migliore); il timbro è buono, ma risulta decisamente sforzato e poco naturale nel registro acuto. Anche vocalmente, il povero brigadiere è facile preda di una Carmen, formidabile tanto per ars canora, quanto per espressività scenica. Martina Belli, che qui veste i panni della gitana più famosa dell’opera, ha saputo cogliere con grande eleganza tutti i tratti del proprio personaggio: gioca, stuzzica, si rivolta, è una banderuola fedele solo a sé stessa. Dotata di un timbro affascinante, dimostra un uso sapiente dei colori e ogni volta che vuole toccare una certa corda nello spettatore compie un centro perfetto. Il suo merito più grande, tuttavia, è un altro: la capacità di far emergere tutta l’umanità della sua Carmen, tanto da far dimenticare che si sta assistendo a una rappresentazione, seduti su comode poltrone.