di Roberta Pedrotti
La splendida Sept réponds des ténèbres di Poulenc, cuore del programma del concerto diretto da Michele Mariotti, offre uno perfetto esempio della pregnanza artistica e concettuale della lingua latina, in questo caso declinata nella sua accezione liturgica e sacra, ma sempre portatrice della perturbante, inquieta, universale grandezza del senso di classico in ogni tempo. Anche senza parole, le fanno da cornice l'ouverture Meerstille und glückliche Fahrt di Mendelssohn e la Quarta Sinfonia di Čaikovskij, ancora in bilico fra Streben e Sehnsucht, impeto e nostalgia, nel segno d'un ineffabile ideale di perfezione.
BOLOGNA, 21 giugno 2014 - Sarà forse Jean Cocteau, amico e collaboratore per entrambi i compositori, il nume tutelare del filo sottile, ma robusto, che nell'ascolto dei Sept réponds des ténèbres di Francis Poulenc ci riporta all'Oedipus Rex di Stravinskij? Certo, l'autore della versione della tragedia sofoclea, tradotta poi - eccezion fatta per i raccordi del narratore – in latino dal gesuita Jean Daniélou, fu amico e collaboratore anche dell'autore dei Dialogues des Carmelites e della Voix humaine (il loro comune capolavoro) e caso vuole che la sua morte abbia seguito di pochi mesi quella di Poulenc, che nel gennaio del '63 abbandonò quindi a un debutto postumo la sua passione sacra, sintesi di testi liturgici. Testi liturgici, testi latini. Ecco, nella profondità della scelta linguistica, l'intimo legame fra due lavori così diversi, separati da almeno trentacinque anni di storia, trascorsi attraversando anche una guerra mondiale. Fra il classico e il cattolico, la sacralità intrinseca nella lingua trova un comune terreno musicale, anche nelle pur evidenti differenze di personalità e scrittura: sia Stravinskij sia Poulenc aderiscono al loro testo latino, nel esaltano la bellezza, la capacità di sintesi semantica, la monumentalità espressiva e musicale, il piede metrico classico da cui deriveranno i modi ritmici gregoriani e che quindi si riverbera nel prezioso, solenne e lirico arcaismo dello stile, ricercatissimo. Stravinskij, però, intende la lingua antica come lingua assoluta del mito, della distanza, filtrata dagli interventi della voce narrante che si esprime nell'idioma del pubblico, sposa tragedia e straniamento. Per Poulenc il latino è invece il linguaggio denso, lirico e privato della preghiera, nel lima all'inverosimile lo spirito ascetico, introspettivo, severo, senza abbandoni, senza leggerezza. Non è la lingua ufficiale della chiesa trionfante, ma quella mistica d'una fede sentita e dolorosa. In entrambi i casi il latino, proprio in virtù del non essere più una lingua parlata nell'uso comune, dimostra la sua vitalità, la sua pregnanza, informa la struttura stessa della partitura nelle sue strutture e nei suoi pensieri più profondi. E se l'accostamento dei Sept réponds di Poulenc non avviene con altri testi che, come l'Oedipus Rex, possano condividerne la lingua o l'ispirazione, non ce ne rammarichiamo, anzi, tutt'altro, perché confermano la perturbante, inquieta, universale grandezza del senso di classico in ogni tempo. Nel viaggio delineato da Mendelssohn sulla scorta di Goethe in Meerstille und glückliche Fahrt o nella Sinfonia n.4 di Čaikovskij, ovvero nell'anelito a una perfezione antica che permea sia il clima intellettuale di Weimar sia la formazione del giovane Felix, ma si increspa nelle tempeste e nel languore della sua inesausta aspirazione; ovvero nella lacerazione fra la forma classica della musica occidentale e la pulsante vitalità della tradizione popolare slava, fra cui sembra riflettersi e dibattersi il tormento intimo di Pëtr Il'ič, così vicino a quello di Francis, in un mondo e in una fede ancora ostili alla loro natura.
Aprendo il programma con Mendelssohn, Michele Mariotti conferma la maestria nella gestione del crescendo e la capacità di dosare i colori sfruttando al massimo la tavolozza di tinte e dinamiche che lo stile del primo Ottocento gli mette a disposizione. Piace, poi, la concentrazione con cui aderisce all'ispirazione di Poulenc, ne delinea con nettezza i confini, conferendo unitarietà e forza a un linguaggio antico per profonda, determinata scelta espressiva e semantica. Risponde bene l'orchestra del Comunale di Bologna, e risponde bene il coro, con il massimo impegno, per quanto la direzione di Andrea Faidutti non riconfermi generalmente gli ottimi esiti di quella di Lorenzo Fratini (passato al Maggio Fiorentino) e l'organico, purtroppo, risulti sempre più spesso sottodimensionato, con ammirevole dedizione dei veterani, ma poco rinnovamento (sanno i giovani cantanti quanto possa essere proficua una gavetta in un coro?). Solista nei responsori è Patrizia Bicciré, che conferma professionalità e sensibilità con una prova ben misurata. Dopo l'intervallo, segue Čaikovskij, in una lettura più drammatica e violenta di quanto non fossimo abituati ad ascoltare, e che con il suo vigore trascina il pubblico all'applauso entusiastico, benché la concentrazione dell'orchestra sia parsa rilassarsi, qui, rispetto alla prima parte del concerto, senza rendere pienamente giustizia alle originali intenzioni di incalzante tensione espresse da Mariotti . Ora solo pochi giorni ci separano dall'ultimo concerto prima della pausa estiva della stagione sinfonica, ma i complessi del Comunale hanno ancora un fitto calendario d'impegni per questi mesi, primo fra tutti la consueta partecipazione al Rossini Opera Festival.