Buchi neri, censura e gran musica

di Francesco Lora

Dopo Adriana Lecouvreur, La forza del destino di Giuseppe Verdi è la seconda opera in forma scenica all’LXXXIII Maggio Musicale Fiorentino. Nuovo allestimento firmato dai signori della Fura dels Baus, concertazione di Zubin Mehta, compagnia di canto con Saioa Hernández, Annalisa Stroppa, Roberto Aronica, Amartuvshin Enkhbat, Nicola Alaimo, Ferruccio Furlanetto e Leonardo Cortellazzi.

FIRENZE, 4 giugno 2021 – Ecco la seconda opera in forma scenica, oltre che col pubblico in sala, all’LXXXIII Maggio Musicale Fiorentino: ed è La forza del destino di Giuseppe Verdi. Cinque recite dal 4 al 19 giugno nel Teatro del Maggio e un nuovo allestimento firmato dai signori della Fura dels Baus: Carlus Padrissa come regista, Roland Olbeter come scenografo, Chu Uroz come costumista e Franc Aleu per messa a punto di luci e video. La "recensione" se la sono fatta da soli, estesamente nel programma di sala o succintamente – come si cita – in un comunicato stampa: «i due amanti‹,› Leonora e Alvaro, sono due esseri intrappolati dalla forza del destino, due stelle che, quando si scontrano, formano un buco nero e perdono la loro luce. E il destino è come un buco nero nel quale precipitiamo. Le due stelle appunto sono Leonora e Alvaro; il loro incontro genererà un buco nero (che si vedrà all’inizio dell’opera) e da questo buco nero verranno generate delle onde gravitazionali, come un sasso gettato nell’acqua, che influenzeranno tutta l’opera innescando dei legami tra il presente, il passato e il futuro fino al suo finale che appare come una fatalità». Ohibò. Tradotto: si tratta sempre del solito spettacolo della Fura dels Baus, vendibile come rivoluzionario quindici anni fa ma oggi in aria di visto e stravisto, con un’ovvia cura della parte mimica e coreografica, ma non altrettanta nel movimento del coro e nel lavoro con gli attori. Anche questo allestimento ha dalla sua l’inconfondibilità del colpo d’occhio sul palcoscenico: può però dare, appunto, assuefazione. Fa poi processionare il coro tra il pubblico nei corridoi della platea, come se ora non vi fosse alcuna emergenza sanitaria a sconsigliarlo. Cade infine in un peccato mortale di pratica nel teatro contemporaneo: sette minuti di sospensione per due cambi scena nella prima parte dello spettacolo, e ben dieci per un solo cambio nella seconda; quando il sipario si rialza, la differenza è minima rispetto alla pazienza del pubblico, decotto dietro le FFP2.

A voler fare i pratici anziché i teorici, invece, si osserva il buttarsi a piè pari in un pasticcio testuale registico. Com’è noto, La forza del destino debuttò a San Pietroburgo nel 1862 e già l’anno dopo era a Roma; Verdi la tenne però lontana da Milano fino al 1869, quando curò per il Teatro alla Scala l’incisiva revisione ancor oggi in auge. Bene. Forse il più nevralgico punto dell’opera, tra l’una e l’altra versione, è la posizione del primo duetto di sfida tra Don Alvaro e Don Carlo di Vargas, il tenore e il baritono: a San Pietroburgo esso era posto alla fine dell’atto III, coronato da una conclusivissima cabaletta del tenore, mentre a Milano fu preceduto da un coro di ronda, fu spostato prima della grande scena d’assieme e perse lo sfociare nella cabaletta. Bene. Se si esegue la versione milanese, come fatto a Firenze, quel duetto non può più muoversi dal luogo ove l’ha collocato Verdi: non ha più l’assetto per costituire una fine d’atto. Non solo. Nella posizione di San Pietroburgo, quel pezzo risulta in effetti un po’ troppo vicino all’altro duetto di sfida tra i medesimi personaggi. Non solo. Entrambi i duetti, a San Pietroburgo, sono preceduti da grandi scene d’assieme. Primo insomma: se non vi fosse la cabaletta del tenore a indurre quanto basta di varietà – ma la cabaletta è appunto soppressa nella versione milanese – il secondo quadro dell’atto III potrebbe sembrare un antiteatrale calco del primo quadro dell’atto IV. Secondo insomma: basta seguire l’una o l’altra versione, ricordandosi che Verdi aveva fiuto drammaturgico a oltranza e che fidarsi delle sue scelte ripaga di conseguenza. Cosa avviene nello spettacolo di Padrissa? Nell’atto III, secondo quadro, ronda e duetto sono invertiti con la scena d’assieme. Perché? Per distanziare situazioni assurdamente contigue, dandosi gli atti III e IV senza intervallo tra i due? E come giustificare, allora, quel cambio scena di dieci minuti? Perché non farne un intervallo vero e proprio, con valenza anche drammaturgica, come Verdi implicitamente desidera? Perdendosi in buchi neri, la logica teatrale traballa.

Altri pasticci di testo, questa volta verbali e di almeno due tipi. Il primo: censura antistorica alla maniera di chi non vorrebbe più nei musei i busti di politici, artisti e filosofi dopo che si è scoperto il loro privato non essere stinchi di santi. Nel dettaglio: atto II, scena II, Preziosilla incita mulattieri e contadini a correre da soldati «in Italia, dov’è rotta la guerra | contro il Tedesco» e tutti rispondono «Morte | ai Tedeschi»; a Firenze ci si pone scrupoli da censura asburgica o pontificia o borbonica (o fascista), che farebbero sbellicare dal ridere il pubblico internazionale di Berlino, Monaco, Salisburgo o Vienna: «contro il Tedesco» diviene «contro il nemico», e «Morte | ai Tedeschi» diviene «Morte | ai nemici». Si trova poi un altro tipo di pasticcio verbale. Nel Rataplan di Preziosilla, atto III, si sente cantare ancora una volta «pim, pum, pum»: già il patriarca Philip Gossett, però, perorava in indimenticabili conferenze che qualsiasi bambino saprebbe correggere quella lezione, anzi quell’erroraccio moltiplicatosi nelle molte edizioni della partitura, nel ben più esplosivo «pim, pum, pam». A metà del terzo paragrafo il lettore può aver voglia di farsi riferire della lettura musicale. Accontentato, così come Zubin Mehta e l’Orchestra e il Coro del MMF hanno dato di che leccarsi i baffi all’uditorio. Tolto l’assenso all’inversione di scene e “numeri” musicali nell’atto III, il lavoro del concertatore è immacolato: si manifesta soprattutto nel levigato, teporoso, notturno turgore degli archi, nell’ispiratissimo apporto solistico del violino, del clarinetto e delle altre prime parti, nella spettacolosa esplosione degli ottoni ai loro luoghi. Lo stacco dei tempi, invero, è sostenutissimo, e si allarga con campate pachidermiche non solo nei cantabili, ma persino nei cori popolari dove Verdi chiede Allegro assai vivo e il braccio dovrebbe mulinellare: ma l’origine di ciò è nella formazione viennese di Mehta e nella corrispondente tradizione, che include La forza del destino e sacrifica il passo dell’azione alla compiaciuta pienezza sonora.

Cantanti. Nella lettera del 17 febbraio 1863, Verdi scriveva a Vincenzo Luccardi: «per avere dei successi, ci vogliono ed opere adatte agli artisti ed artisti adatti alle opere. È certo che nella Forza del Destino non è necessario sapere fare dei solfeggi, ma bisogna aver dell’anima e capir la parola ed esprimerla». Il problema ritorna a Firenze. Il debutto di Saioa Hernández come Donna Leonora è già stato recensito, senza volere, nel pezzo sulla Tosca da lei cantata al MMF nel maggio scorso: sicurezza estensiva, origine timbrica e piena risonanza sono quelle di una vocalista d’alta sfera, ma il gusto è obsoleto e non si trova differenza di caratterizzazione tra le due protagoniste. Solfeggi, si diceva; anzi, diceva Verdi. Anche nel caso di Amartuvshin Enkhbat, non si sa se tornare a casa più in debito o più in credito: i mezzi sono d’importanza inaudita, con quell’omogeneità, quella resistenza, quella facilità, quella potenza, quel timbro che non conosce pagliuzza di disagio; però è come se il tutto fosse uno strumento senz’anima propria, che si limiti a ripetere, senza interiorizzarli, i fraseggi dei grandi baritoni storici alle prese con Don Carlo. Il discorso cambia con la lista, tutta di italiani, che completa la locandina. Roberto Aronica, come Don Alvaro, non intona ogni cosa con lo stesso interesse e dunque con la stessa fragranza: la discontinuità è evidente; nei momenti di suo maggior coinvolgimento, però, l’energia del porgere colpisce come di rado, e fa di questa una delle sue più dotate e mature prove. Maliziosa, svettante, seducente, Annalisa Stroppa è su misura per una Preziosilla a tutto tondo. Ferruccio Furlanetto, ormai anzianotto, muggisce col carisma di sempre la parte del Padre Guardiano: il fiato s’è accorciato, l’intonazione oscilla, il volume impressiona. Scoppia chiocciamente di rabbia popolana il Fra Melitone di Nicola Alaimo, che però non dovrebbe dimenticare la filosofica bonarietà di ogni parte di buffo all’italiana, soprattutto se con chiare ascendenze donizettiane. Mastro Trabuco di lusso se a cantarlo è Leonardo Cortellazzi.