L'ottava porta

di Roberta Pedrotti

Scelta vincente quanto non scontata, quella del Comunale di Bologna di riaprire al pubblico le porte dell'opera con Il castello di Barbablù di Bartók. Sebbene in forma oratoriale e senza concessioni effettistiche, la direzione di Juraj Valčuha garantisce una teatralità profonda e avvincente.

BOLOGNA, 9 giugno 2021 - L’ultima moglie di un uxoricida plurimo infrange il divieto imposto dal marito, scopre i suoi crimini, viene salvata (e resa provvidenzialmente vedova) prima di diventare l’ultima vittima dell’uomo. Questa, in sintesi estrema, la fiaba di Perrault, in parte attinta da leggende precedenti, in parte ispirata a personaggi storici (un po’ Enrico VIII, un po’ il sinistro Gilles de Rais). Quello di Barbablù, però, è un mito che va molto al di là della mera mera esposizione dei fatti essenziali, tant’è che non solo diventa antonomasia nel linguaggio comune anche iperbolica e comica, come quando Beaupertuis nel Cappello di paglia di Firenze fa il paio fra “Povera figlia mia, non ci pensare più! | Ed io che ti ho sposata a un Barbablù” e “Ha confessato: Sardanapalo!”. Altrove, la vicenda si declina in varie prospettive simboliche: il divieto infranto, la curiosità punita, il concetto di amore e libertà (ecco Ariane et Barbe Bleue di Maeterlink, con le mogli precedenti vive e ben liete di restare con lo sposo padrone nonostante l’ultima arrivata le spinga a fuggire e finisca per andarsene da sola), eros e thanatos, psicanalisi, estetismo decadente (la descrizione dei preziosissimi tesori nelle sale del palazzo solleticano descrizioni à la Wilde), livido espressionismo. E poi c’è Béla Bartók , che prende la fiaba francese per scrivere un’opera in tutto e per tutto ungherese, operazione che riesce benissimo proprio in virtù dei significati intrinseci al soggetto e al trattamento drammaturgico di Béla Balázs. Fin dalle prime battute il fulcro sembra spostarsi dal particolare all’universale, il rapporto fra Barbablù e l’ultima moglie Judith ricorda quello fra Ade e Persefone: lei lascia gli affetti, la luce, la primavera della vita (un promesso sposo dal soleggiato castello ricoperto di fiori) per seguire un uomo cupo e taciturno in un maniero oscuro e umido, come una discesa agli inferi per divenirne regina. Penetrando nelle profondità del castello, si svelano ricchezze favolose (Pluto, dio delle ricchezze del sottosuolo, si confonde con Ade/Plutone, dio degli inferi), ma anche il sangue, la morte, l’irreversibile. E se Persefone determina il ciclo delle stagioni, Judith diventa allora parte, dopo questa discesa iniziatica e trasfigurante, del ciclo del giorno, la notte splendida e stellata dopo che le altre mogli sono scese a incarnare l’aurora, il meriggio e la sera. La vita e la morte - e l’amore - come chiave della natura, in una metafora che, tuttavia, va oltre la ritualità del macrocosmo. Il microcosmo ci mostra Judith e Barbablù come indissolubili facce della stessa medaglia in cui la conoscenza reciproca diventa conoscenza di sé,ad ogni costo. Judith sembra accettare Barbablù, il suo castello tenebroso, senza rimpianti, ma non frena poi il desiderio di illuminarlo, cambiarlo, scoprirne gli anfratti, varcare i limiti. Barbablù sembra amare davvero Judith, e per questo la mette in guardia, conserva, ricorda i limiti. Yin e Yang, si completano e si compenetrano in un moto continuo, norma e infrazione, forma e azione: non c’è, in fondo, violenza e orrore, nel Barbablù (A kékszakállú herceg vára in originale)di Bartók e Balázs, quanto piuttosto uno scavo interiore implacabile, per certi versi sconcertante. 

L’idea di ascoltare l’opera in forma oratoriale e nell’orchestrazione rielaborata e ridotta da Eberhard Kloke (1948) nel 2019, mai eseguita prima in Italia, poteva apparire un compromesso imposto dall’emergenza sanitaria: senz’altro la scelta è determinata dal contesto, ma il risultato non ha nulla di rinunciatario. La fissità statuaria dei due protagonisti (bravissimi: il baritono Károly Szemerédy e il mezzosoprano Atala Schöck, debitamente ambigui e inquietanti nell’avvilupparsi del loro rapporto) è già di per sé elemento scenico nel procedere ineluttabile del dialogo, il resto lo fa anche fisicamente l’orchestra intorno a loro, grazie alla cura di Juraj Valčuha. Nelle sue mani il suono si plasma con il corpo, la pienezza timbrica, la vibrazione interna che non fa rimpiangere il pieno organico, mettendo semmai in luce il dettaglio strumentale agilmente scontornato. Allora, per esempio, lo schiudersi dei tesori, l’aprirsi nell’abisso di terrazzi e panorami meravigliosi, sfugge a ogni compiacimento estetizzante, a ogni preziosismo che non sia funzionale a un doloroso quanto necessario percorso interiore. Allora, basta davvero un nulla, se dosato ad arte, per far sentire in quello stesso colore nero e denso l’acqua pura, l’umidità rappresa, le lacrime, il sangue che via via Judith vi riconosce. 

Valčuha conosce bene, benissimo i complessi del Comunale e ha tutte le qualità tecniche e carismatiche per trarne il meglio, ma non si tratta sic et simpliciter di “far suonare bene”, ché se non si comprende il testo, se non si ha qualcosa da dire e non si sa come dirlo chiaramente, suonar bene non significa nulla. Quel che fa Valčuha, invece, significa molto: racconta con tensione continua l’essenzialità degli eventi, non lascia mai esplodere l’effetto, tantomeno la brutalità, mettendo in evidenza viceversa la corrispondenza fra i vari livelli di lettura, macro e microcosmo, e la prosodia, il ritmo, le strutture melodiche ungheresi. Bartók non si limita a musicare un libretto nella propria lingua sciorinando il catalogo dei suoi studi sulla musica popolare, ma fa sì che lingua e musica siano il dizionario espressivo del dramma. Ecco perché un pubblico italofono necessariamente appeso ai sovratitoli ascolta con il fiato sospeso e poi esplode in meritatissimi prolungati applausi. 

E così, seppur in forma concertante, anche l’opera a Bologna ha riaperto le porte, e questa volta, rispetto alle sette del castello di Barbablù, è tutt’altra storia, a lieto fine.