L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Circo Pontevedro

di Sergio Albertini

La vedova allegra che apre la stagione estiva del Lirico di Cagliari è un successo nonostante la regia latitante e pretestuosa e una coppia protagonista non proprio all'altezza. Spiccano, invece, le prove di Gennaro Cannavacciuolo come Njegus e di Levy Sekgapane come Camille de Roussillon.

CAGLIARI, 16 giugno 2021 - Cominciamo dalla fine. È stato un successo di pubblico senza se e senza ma. Nonostante in tv ci fosse una partita della Nazionale italiana. Nonostante i residui, palpabili, della post (?) pandemia.

Il Lirico di Cagliari ha fatto le cose per bene. S'è inventato uno spazio all'aperto, sotto un cielo non solo di stelle, ma anche di gabbiani in volo. Nessun rumore giunge dalle strade vicine. Una Arena, inaugurata in piena pandemia nell'estate del 2020, in piazza Amedeo Nazzari, tra il Teatro Lirico e il Conservatorio di Musica. Normative di sicurezza sanitaria anti Covid-19, controllo della temperatura, igienizzazione e, dei 1335 posti disponibili, 700 utilizzati, numerati e ben distanziati.

Il palcoscenico (coperto) era, per questa prima realizzazione scenica (lo scorso anno le opere erano state eseguite in forma di concerto), affiancato da una estensione laterale scoperta di quasi 10 metri per 20; qui hanno presto posto gli artisti del coro, rigorosamente in nero, ciascuno circondato da protezioni in plexiglass. La nuova produzione della Vedova allegra, spettacolo scelto per inaugurare la stagione di 'Classicalparco', era affidata alla regia di Blas Roca Rey. Attore di cinema (con Gabriele Muccino e Pupi Avati), di fiction televisive e di teatro, qui – credo – al suo debutto registico in una messa in scena musicale, ha più volte dichiarato di aver voluto trasferire la vicenda ideata da Victor Léon e Leo Stein nel mondo del circo (“Ci voleva un’idea forte, qualcosa di festoso, di grandioso, colorato e graffiante, che facesse di quest’operetta uno spettacolo popolare ma raffinato, trasgressivo ma rigoroso»”): non se ne abbia a male, Blas Roca Rey, ma drammaturgicamente è equivalso al nulla. In una scena coloratissima (e fissa) di Antonella Conte (grande tendone rosso, scritta luminosa 'Cirque', pali di sostegno, una pedana circolare al centro) non accade praticamente nulla, se non il ben noto entrare e uscire di scena di consolidata tradizione. I protagonisti sono abbigliati (peraltro con fantasia da Marco Nateri) con abiti di più o meno di vaga ispirazione circense, mentre una nutrita serie di figuranti e di comparse anima lo spettacolo con numeri acrobatici, con animazioni di coppie d'orsi o di impennati cavalli; il tutto con una eleganza formale che non disturba l'azione e il canto dei protagonisti. Ecco, avendo visto due giorni prima il Così fan tutte in streaming dal Met con la regia di Phelim McDermott (ci sono nani, mangiatori di spade, donne barbute, mangiatori di fuoco, le tazze ruotanti del luna-park e tanto altro ancora. Un lavoro drammaturgico minuzioso e raffinato, e il dipanarsi della trama funziona per ogni abito, per ogni gesto, in un avvicendarsi di idee che affascina e ammalia) il confronto purtroppo s'è fatto spietato.

Tra i protagonisti di questa Vedova cagliaritana spiccano due fuoriclasse assoluti. Il Njegus di Gennaro Cannavacciuolo, vera 'bestia' da palcoscenico che strappa risate e applausi per l'ironia mai ammiccante o volgare (l'operetta era presentata nella traduzione italiana di Ferdinando Fontana, adattata da Filippo Crivelli e rivista – non è specificato in che modo – dallo stesso Blas Roca Rey) e che nella sua aria “Alla sera la città” ha mostrato una disinvoltura nella danza (precisa e molto 'old style') e nel canto da far invidia a molti artisti più giovani di lui. Altro fuoriclasse, il Camille de Rossillon interpretato da Levy Sekgapane; il tenore, che da poco ha pubblicato un interessante recital rossiniano, ha sciorinato messe di voce, pianissimi, acuti folgoranti, un fraseggio articolatissimo, una dizione impeccabile. Vera lezione di belcanto applicata all'operetta. Non è un caso se Sekgapane e Cannavacciulo sono stati, di fatto, i più applauditi. Valeva forse la pena di affidare a lui il ruolo del Conte Danilo, qui affidato a Leonardo Caimi: greve, legnoso, dal canto stentoreo, privo d'ogni morbidezza. Purtroppo Elisa Balbo, nel ruolo del titolo, non era da meno: condizionata nel primo atto da un abito nient'affatto elegante e da una vistosa parrucca bionda più da Mamie van Doren che da Marilyn Monroe, disegnava una Hanna Glawary sicuramente di vocalità interessante, ma priva d'ogni aspetto seduttivo, aristocratico. Una coppia che, se pur ha riscosso alla fine il consenso del pubblico, mancava totalmente di stile. Eccellenti invece tutti gli altri: una Valencienne misurata quella di Maria Laura Iacobellis, efficaci Stefano Consolini (il visconte Cascada), Mauro Secci (Raoul de Saint Brioche), Francesco Musinu (Bogdanowitch), Enrico Zara (Kromow), Andrea Schifaudo (Protschitch), le ottime Fulvia Mastrobuono (Sylviane), Lara Rotili (Olga), e Federica Giansanti (Praskowia), le scatenate Grisettes (Barbara Crisponi, Beatrice Murtas, Graziella Ortu, Francesca Zanatta, Caterina D'Angelo, Luana Spinola). Resta il barone Mirko Zeta, affidato a Bruno Praticò: se la verve attoriale rimane sempre di prim'ordine, l'usura dei mezzi vocali lascia un lieve velo di nostalgia per i tempi migliori, ma oramai andati. Nonostante la posizione decentrata, ottima prova da parte del coro del Lirico preparato da Giovanni Andreoli; efficaci, nonostante lo spazio ridotto della scena, le coreografie di Luigia Frattaroli, e ottime luci (con qualche 'effetto' disco-dance sul pubblico) di Andrea Ledda. La resa orchestrale e direttoriale di Giuseppe Finzi, tenuto conto dell'amplificazione, è stata buona; forse qualche rubato in più avrebbe dato un respiro più 'viennese' all'esecuzione. Del successo di pubblico, s'è detto: timidi applausi all'inizio, poi coinvolgimento pieno nel battere il ritmo sui brani finali, e sorpresa per lo scoppio sulla scena di luccicanti 'finti' fuochi d'artificio.


 

 

 
 
 

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