Riflessi di Violetta

di Roberta Pedrotti

Torna, per celebrare i cento anni dell'opera allo Sferisterio, l'allestimento della Traviata firmato da Brockhaus e Svoboda, sempre più inconsistente nella regia del primo, ormai storicizzato nell'ostensione della scenografia del secondo. Paolo Bortolameolli dilata i tempi e tiene sotto controllo una recita senza troppe emozioni.

MACERATA, 25 luglio 2021 - Bis verdiano per i cent'anni dello Sferisterio. Se Aida ha tenuto a battesimo l'opera all'aperto a Macerata, La traviata “degli specchi” è forse la produzione simbolo del festival negli ultimi trent'anni, presenza dunque irrinunciabile nel cartellone celebrativo. Certo, al di là del legittimo e indiscusso affetto dei maceratesi per questo spettacolo, l'unica ragione per rivederla pare oggi puramente storiografica, uno studio su quello che è stato senz'altro un capolavoro del geniale e compianto scenografo Josef Svoboda. Una ragione quasi museale: non può mancare nella cultura di chi si occupa di teatro, lo si visita come un pregiato reperto. Bisogna anche ammettere che, ridipinti i teli/tappeti/fondali, l'impatto è più vivido dell'ultima volta (2018), così come la ripresa della regia di Henning Brockhaus appare più ricca e curata, seppur non sempre con esiti felicissimi al netto di qualche colpo d'occhio ancora appagante (il turbinio rosso che avvolge tutto il palco sostituisce il trenino festaiolo di tre anni fa in casa di Flora, e va benissimo, ma non basta a parlare di un lavoro registico degno di nota).

Sembra di tornare a casa, si sposta qualche soprammobile, non ci si scompone se è rimasta un po' di polvere e non si son fatte le pulizie di fino. Anche il cast è pienamente rassicurante, a partire da Claudia Pavone che, nonostante la giovane età, ha già all'attivo un più che discreto numero di recite nei panni di Violetta Valery. La parte non le crea certo problemi – poco importa se al termine di una cabaletta staccata con tempi sfiancanti non s'inerpica al mi bemolle non scritto –, la figura è quella giusta, fresca, graziosa, minuta. Le difetta solo quel pizzico di magnetismo in più, quel pathos avvincente che dovrebbe incarnarsi nel mito della Dame aux camélias e che qui, all'aperto, in una produzione fin troppo tranquilla, si stempera un po'. Resta, però, la bella sintonia, per chiarezza di timbro e articolazione, con il tenore Marco Ciaponi, un Alfredo che sa essere schietto e raffinato allo stesso tempo, dal canto luminoso che non teme le numerose insidie di un ruolo anche psicologicamente sfuggente (guai farne un bamboccio, ma anche un eroe romantico), ora elegia in punta di fioretto, ora passione ardente. La confidenza con Mozart, Bellini e Donizetti ha certo ben forgiato i suoi mezzi per dare credibilità al personaggio. Nondimeno, Sergio Vitale canta con molto gusto e propensione alle mezzevoci la parte di Germont.

Valeria Tornatore è una buona Flora, mentre Estìbaliz Martyn è sollecitata – si presume – dalla regia a fare di Annina un'insopportabile e ridanciana oca giuliva. Marco Puggioni è Gastone, Giuseppe Auriemma il Barone, Stefano Marchisio il Marchese, Francesco Leone un Dottor Grenvil che conferma, con emissione morbida e composta, la bella impressione destata nella recente Bohème bolognese.

Sul podio, Paolo Bortolameolli desta impressioni interlocutorie, anche senza entrar nel merito di qualche taglio ereditato dall'impostazione originale. Sa indubbiamente il fatto suo e sa far quadrare tutti i conti, trova il suo momento migliore nel quadro della festa di Flora, ma troppo spesso indulge in tempi fin troppo larghi, specie in alcune cabalette che si dilatano al limite della stasi senza che le animi un qualche palpito dinamico interiore. Si tratta, forse, anche di un'opportunità pratica, gestita peraltro con sicurezza, ma il preponderare di fraseggi morbidi e soffusi, di agogiche sospese finisce per smussare un po' troppo il dramma, senza stimolare, viceversa, il cast a una resa più variegata e incisiva. Poi, qualità di suono (molto bene anche stasera la Filarmonica marchigiana e il Coro Bellini preparato da Martino Faggiani) e coerenza complessiva non mancano, per cui attendiamo di riascoltare il maestro italo cileno in una prossima occasione, magari al chiuso.

E alla fine lo specchio si risolleva, abbraccia la buca, la platea, poi tutto lo Sferisterio: è la sua festa. Lunga vita allo Sferisterio, benedetto dalla ciclica ostensione dei riflessi di Violetta.