Händel torna alla Fenice

di Francesco Lora

Dopo trentadue anni, Rinaldo è di nuovo a Venezia nello spettacolo di Pier Luigi Pizzi, memorabile visivamente ma testualmente problematico. Teresa Iervolino, al debutto come eccellente protagonista, spicca nel versante musicale con Francesca Aspromonte e Federico Maria Sardelli.

VENEZIA, 4 settembre 2021 – Bentornato a casa. Si può dire, poiché il Rinaldo di Georg Friedrich Händel con regìa, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi fu varato nel 1985 al Teatro Municipale di Reggio nell’Emilia (lungimiranza dei teatri di tradizione), ma è nelle recite al Teatro La Fenice, nel 1989 e con Marilyn Horne, che si trasfigurò e rimase poi immortale. Qui si dà conto della ripresa nel teatro veneziano, avvenuta in tre recite dal 31 agosto al 4 settembre, con scene e costumi restaurati dopo un lungo uso. Un risaputo e insuperato capolavoro visivo: lo si era ribadito in queste pagine giusto un anno fa, riferendo del suo passaggio per il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino [leggi la recensione:Firenze, Rinaldo, 07/09/2020]. Ma il capolavoro visivo – si era anche detto – viaggia insieme con un’opinabile, obsoleta e ingenua manomissione di libretto e partitura: la valida tenuta teatrale e la giusta logica e musicale ne patiscono.

Le considerazioni dell’anno scorso possono essere rinverdite con un paio di esempi. Primo. Quando la maga Armida rapisce Almirena, il protagonista si strugge nell’esterrefatta «Cara sposa, amante cara»; all’inverso, quando Armida prende l’aspetto dell’amata, egli si disinganna cantando la furibonda «Abbrucio, avvampo e fremo»; ogni reazione e ogni aria sta bene al proprio posto; in Pizzi, invece, «Cara sposa» è assurdamente spostata come risposta all’inganno magico, «Abbrucio, avvampo e fremo» sostituisce «Il Tricerbero umiliato» e il buco lasciato da «Cara sposa» rimane lì, aperto, proprio dove il teatro musicale pretende che il personaggio agisca e il cantante si imponga. Altro esempio. In quest’opera, la passione amorosa di Armida per Rinaldo resta un soggetto secondario: si esaurisce in tre scene di confronto tra i due, compresa quella della metamorfosi in Almirena; la terza scena è però un monologo ricalcato su quello, celebre, di Philippe Quinault nell’Armide per Jean-Baptiste Lully: la maga alterna disperazione e rabbia, rimasta sola con la vera sé stessa; in Pizzi, invece, la bipolare aria «Ah crudel, | il pianto mio» finisce suddivisa tra Armida e Almirena, come se il travestimento sia ancora in corso e come se gli opposti affetti debbano essere separati tra due personaggi anziché, più dolorosamente, confliggere in uno solo. E così via. Eppure basterebbe che Pizzi, una buona volta, rimodellasse le sue immagini perfette su ciò che Rinaldo davvero è in parole e musica: proprio l’esilità drammaturgica del lavoro sin qui intrapreso consentirebbe la sua revisione con agio e frutto.

Federico Maria Sardelli aveva diretto le ultime recite fiorentine ed è tornato per dirigere quelle veneziane. Se non è Pizzi a prendere l’iniziativa, va da sé, il classico pizziano non si tocca. Spiace così che uno tra i pochi concertatori italiani davvero specializzati nella musica tra Sei e Settecento, uno tra i pochi a poter vantare autentica autonomia intellettuale in un approccio scientifico al testo, uno tra i pochi in condizione di relazionarsi alla pari con Pizzi secondo una comune e rara erudizione, spiace così – si diceva – che un artista qual è Sardelli debba passare, forzatamente, tramite il dissesto della partitura anziché poter illustrare il vero Rinaldo. Egli ne avrebbe facoltà, merito e diritto. Ne avrebbe vantaggio lo spettacolo e ne avrebbe illuminazione il pubblico.

Sardelli aveva lavorato bene con l’Orchestra del MMF, flettendola a giusto fraseggio pur senza disporre di strumenti antichi; non gli sono mancate le occasioni di ben lavorare, in tal senso, anche con l’Orchestra del Teatro La Fenice. Col positivo ricambio degli ultimi lustri, però, la compagine veneziana si è affinata nella tecnica ed è divenuta, alla tedesca, esuberante e sfarzosa, rombante e splendente: arduo è tenere a bada, oggi, gli istinti “mahleriani”. Soprattutto con tale esempio e visto l’ampliamento di repertorio, si fa dunque viepiù urgente che le orchestre delle fondazioni liriche incorporino anche professori abili con gli strumenti antichi, trombe e corni naturali in primis: il nome rimane lo stesso, ma nient’affatto i timbri, la tecnica e le sonorità.

Compagnia di canto. Teresa Iervolino era già stata protagonista nel memorabile Rinaldo del 2018 al Festival della Valle d’Itria [leggi la recensione Martina Franca, Rinaldo, 29/07-02-04/08/2018] ; in quell’occasione, però, si trattava del rifacimento napoletano di Leonardo Leo, mentre alla Fenice è finalmente avvenuto – Pizzi permettendo – il debutto di lei nell’originale di Händel. Eccelle per autorevolezza d’accento, eroismo di mordente e immediata comunicativa, nonché per coloratura fluida, nitida e vivida, tanto meglio esibita se in variazioni e cadenze di non ordinaria ispirazione: da ammirare il vortice di semicrome in «Venti, turbini, prestate» (aria non contemplata nel rifacimento di Leo) e la sfida agli ottoni in «Or la tromba in suon festante» (due sole trombe in Leo, ben quattro in Händel). Ottimi, come a Firenze, Francesca Aspromonte e Leonardo Cortellazzi quali Almirena e Goffredo. Non si discute l’abnegazione di Maria Laura Iacobellis, che come Armida ha però calibro leggero, tendente a irrigidirsi nell’oneroso ruolo della vera prima donna. Puntuali le Sirene di Valentina Corò e Marilena Ruta: come ogni volta avviene, hanno intonato all’unisono la siciliana «Il vostro maggio | de’ bei verdi anni», palesemente composta, accanto al recitativo della Donna, per essere invece eseguita da una sola cantante (o tuttalpiù da due che si alternano di frase in frase).

Guai a credere che si possa trascurare la scelta dei comprimari: la particina dell’Araldo consta di appena cinque versi, otto battute (e mezza) e una sesta d’estensione; chiede soltanto di essere ben pronunciata, ma il compito è fuori portata per l’unico non madrelingua in locandina. Infine, una bella storia. Tommaso Barea, ventinovenne, era stato scritturato come Mago cristiano, ruolo di contorno, ma il giorno della prova generale si è trovato anche a sostituire, da lì per tutte le recite, il collega impegnato nella superba ed esposta parte di Argante: l’aveva già studiacchiata per il piacere personale e lo scrupolo professionale di allargare gli orizzonti, e ha salvato lo spettacolo. Ovviamente emozionato – chi non lo sarebbe, a cantare, dall’oggi al domani, alla Fenice e con Pizzi, un’aria di sortita da far tremare i polsi, «Sibilar gli angui d’Aletto», su due metri di cavallo mariano e con un mantello che riempie la scena? – ha nondimeno meritato l’universale simpatia e mostrato risorse generose. Chi ben comincia…