Quell'Isola disabitata del Padre Haydn

di Alberto Spano

A Ravenna l'opera di Haydn, teatro di sentimenti più che d'azione, ha come punta di diamante un'ottima compagnia di canto, guidata dalla morbida e fluente bacchetta di Nicola Valentini. Minimalista la messa in scena di Luigi De Angelis.

RAVENNA, 23 ottobre 2021 – È un’operina con soli quattro personaggi e senza coro, con trama lieve e drammaturgia ancor più lieve, destinata alla Corte degli Esterhazy per uno dei tanti appuntamenti musicali obbligati di un pubblico esiguo e forse poco interessato, dunque non destinata, per bocca del suo stesso autore, ad una fortuna teatrale, alla cosiddetta “circuitazione” internazionale. Stiamo parlando dell’azione teatrale in due parti L’isola disabitata di Franz Joseph Haydn del 1779, su delizioso libretto di Pietro Metastasio, ripresa dopo duecentoquarantadue anni al Teatro Alighieri per due sole recite (come accadde alla prima) con la regia di Luigi De Angelis (della compagnia Fanny & Alexander) e la direzione di Nicola Valentini. “Se solo potessero ascoltare la mia operetta L’isola disabitata – scriveva sfrontato nel 1781 il Padre Haydn all’editore Artaria per autopromuoversi - o la mia ultima opera La fedeltà premiata, io le assicuro che a Parigi non si è mai sentita della musica simile, e senza dubbio neanche a Vienna. La mia disgrazia è quella di vivere in campagna”.

Lieve la vicenda, si diceva, in linea con le memorie alla moda del mito del buon selvaggio alla Rousseau e dell’isola alla Robinson Crusoe (del 1713): due sorelle, Costanza e Silvia, vivono segregate cibandosi di bacche e piante nell’isola deserta dove tredici anni prima erano approdate col giovane sposo della maggiore Costanza, durante una tappa del loro viaggio verso le Indie. Mentre le due sorelle erano appartate in una grotta dell’isola, il marito Gernando era stato rapito dai pirati e poi imprigionato. Liberatosi dopo tredici anni, eccolo riapprodare all’isola alla ricerca della moglie, accompagnato dal fido Enrico. L’opera consiste nel lento riavvicinamento delle due coppie, a cominciare dalle arie lamentose di Costanza che crede di essere stata abbandonata volutamente dallo sposo e dunque canta il suo scontento verso il genere maschile, a discapito dell’opposto desiderio di vita della sorella minore, Silvia. Sul fronte maschile la curiosità, l’ottimismo e lo spirito di avventura di Enrico si oppone al pessimismo e alla disperazione di Gernando, convinto della morte della sua sposa. Un’idea quasi fissa la sua, corroborata dal ritrovamento sull’isola della pietra sulla quale Costanza anni prima aveva scritto di essere morta di dolore per l’abbandono del suo giovane sposo. Azione quasi nulla, si può ben capire, piuttosto un teatro di sentimenti e di palpitazioni. La musica segue la vicenda fin dalla potente Sinfonia in quattro sezioni diverse che possiede già lo stile Sturm und Drang, sciorinando una dietro l’altra le arie solistiche connesse fra loro non da recitativi secchi, ma da più morbidi recitativi accompagnati, in una specie di flusso continuo che risente della riforma gluckiana, in particolare dell’Orfeo ed Euridice di tre anni precedente (un’eco precisa, quasi citazione di “Che farò senza Euridice” nell’aria di Costanza “Se non piange un’infelice”), sicuramente studiato e conosciuto da Haydn durante il suo dorato soggiorno alla Corte di Fertöd in Ungheria, a cento chilometri da Vienna. Ciò regala una musica assai piacevole, ben scritta e piena di finezze strumentali e armoniche, ma non certamente ricca di una forte drammaturgia musicale ed espressiva: in pratica un’ottantina di minuti di splendida arte musicale, ma azione e dramma quasi zero. Una condizione a volte presente nelle opere di Haydn, ma in questa particolarmente accentuata.

È un teatro in musica raffinato e quasi asettico, difficile da mettere in scena in un teatro d’oggi: c’è parzialmente riuscito Luigi De Angelis coi suoi storici collaboratori (in primis Chiara Lagani che firma drammaturgia e costumi) che della pièce ha offerto una visione minimalista e quasi stilizzata, nonostante l’uso di proiezioni di belle immagini dell’Isola di Marettimo e di una suggestiva Ravenna sorvolata da un drone. Nella nuda scena belle luci e pochi elementi: un divano moderno su cui dorme triste e sconsolata Costanza e sul quale insiste un’azione povera e rarefatta, un sasso in bella vista in varie dimensioni, un manichino metafisico (citazione di quadri di Balthus riprodotti nel curatissimo libretto di sala), una tenda-sipario frastagliata usata a mo’ di cespugli dietro i quali si nascondono i personaggi. Tenda ogni tanto semovente a delimitare le scene sulla quale si proiettano le immagini marittime e ravennati, e poco altro. I personaggi in abiti senza tempo si muovono sperduti come in uno spazio post-apocalittico, con gesti astratti spesso incomprensibili.

In buca si ascolta la non sempre precisa orchestra Dolce Concento Ensemble, con interessante prassi esecutiva barocca spinta (al fortepiano Jacopo Raffaele), sotto la morbida e fluente bacchetta di Nicola Valentini, attento alle voci che sorregge con esemplare sapienza. Voci bellissime, peraltro, punta di diamante dell’intera produzione: dolente, espressiva e sensuale quella del mezzosoprano Giuseppina Bridelli nei panni di Costanza, una Contessa in sedicesimo. Precisa, puntuta e intonatissima quella di Anna Maria Sarra nei panni di Silvia, fanciulla in fiore piuttosto decisa che scopre l’amore e l’esplosione dei sensi. Adeguata nella sua parte di sposo nobile sconsolato e sfortunato la voce tenorile di Krystian Adam, nel corso dell’opera acquisente sicurezza e bel colore, infine puntuale e raffinata la prestazione del baritono Christian Senn, un Enrico audace e appassionato.