Ossa e fiori

di Roberta Pedrotti

Successo incontrastato per Iphigénie in Tauride al Teatro Grande di Brescia, con Anna Caterina Antonacci affiancata da Bruno Taddia e Mert Sungu, per la regia di Emma Dante e la direzione di Diego Fasolis.

Leggi la recensione anche della recita di Pavia, Iphigénie en Tauride, 31/10/2021

BRESCIA 5 novembre 2021 - Un anno fa puntavamo alla Destinazione Tauride [Brescia, #2021 DestinazioneTauride, 23/10/2020]. Non proprio il luogo più ospitale del mito classico, ma la prospettiva, finalmente, di giungere a condividere in teatro le sorti di Iphigénie. Un anno fa incombevano nuove chiusure, teatri a capienza ridotta venivano chiusi al pubblico, c’era il coprifuoco, un membro del cast era stato ricoverato. Aspettavamo i vaccini. Ora, dodici mesi e giorno più, giorno meno a seconda della piazza, Iphigenie en Tauride di Gluck va in scena nei teatri di OperaLombardia, arriviamo tutti a destinazione.

A dispetto della proverbiale ostilità degli abitanti, l’approdo in Tauride è assai felice, a ricordarci per l’ennesima volta – qualcuno ha memoria corta – che le grandi produzioni non sono monopolio delle grandi Fondazioni, che c’è vita e repertorio anche al di là di Barbiere/Rigoletto/Traviata/Bohème. Ovvio, poi, per fare come si deve l’opera di Gluck non la si può affidare a chiunque, ma questo dovrebbe valere per qualsiasi titolo.

Quando in locandina si trova il nome di Anna Caterina Antonacci, ad ogni modo, c’è poco da aggiungere, specie in questo repertorio tragico e coturnato, specie nella lingua francese che padroneggia come, se non meglio di una madrelingua. Il carisma è supremo, il timbro ha quella patina malinconica e nobile che anche quando avvizzisce fa dei segni del tempo un valore aggiunto, le ferite e le consunzioni della principessa involata al sacrificio e condotta fra barbari a officiare sacrifici umani. C’è, sotto una scorza stremata, ancora il bocciolo del tempo passato, il ricordo addolcito che perdonano il male subito e conservano le carezze perdute. Fra l’abito nero severissimo, e perfino armato di un corpetto corazza, e quello fiorito (o infiorato come vittima all’ara) e leggiadro di cui la veste Vanessa Sannino, Antonacci sfuma le anime prigioniere di Iphigenie con la nobiltà e l’acume della grande artista, della somma tragédienne.

E, per fortuna, non è sola. Bruno Taddia è un Oreste di non impari caratura; si trova a suo agio nella tessitura acuta di baritono chiaro alla francese, ma soprattutto nello stile declamato che sa fare proprio con ferma dignità e profonde lacerazioni, erede del trono di Micene ma anche delle catene di orrori degli Atridi. Il progressivo avvicinamento alla sorella è tenero, sì, ma anche prudente, pudico, segnato dal peso del passato e delle responsabilità. Il rapporto con Pylade è affettuoso, amoroso ma senza speranze, votato alla morte e alla rinuncia. E sì che Mert Sungu, come altro polo di questo triangolo di affetti, coniuga assai bene il côté eroico, la nobiltà del porsi di fronte al destino, con il più schietto afflato sentimentale nella splendida “Unis dès la plus tendreenfance”, l’aria d’amore che Pylade rivolge a Oreste abbracciando l’idea di una morte condivisa dopo una vita vissuta insieme.

Michele Patti si inerpica nella tessitura ostica di Thoas, anche perché univocamente aggressiva, senza le screziature concesse a Oreste. Marta Leung è una Diane efficace dea ex machina, corifei e corifee (Luisa Bertoli, Miriam Gorgoglione, Erica Rondini, Chiara Ciurlia, Alessandro Nuccio ed Ermes Nizzardo) completano il cast con il coro ben preparato da Massimo Fiocchi Malaspina. Diego Fasolis pone tutta la sua esperienza settecentesca al servizio di una lettura energica ed efficace, che non impone ai Pomeriggi Musicali le ferree prodezze di chi vive ogni giorno di pane e barocco, ma sa imprimere il giusto passo all’allestimento, senza temere vigorose impennate drammatiche, elegiaci abbandoni (l’aria citata di Pylade) o, ancora, un’esuberanza quasi ironica nella furia scita alla prima cattura dei due stranieri. Tutto in buona sintonia con il lavoro di Emma Dante, che mescola un Settecento stilizzato ai limiti dell’atemporale con una vera finta Grecia, per un immaginario classico apparentemente luminoso, ma popolato da scheletri, arti femminili brulicanti, visioni che hanno la stessa fisicità e definizione del reale, come se la dimensione interiore e quella esteriore, l’oggettivo e il soggettivo fossero un tutt'uno. Dopotutto, questo netto bianco e nero, queste ghirlande di fiori porteranno alla riunione di famiglia, con Oreste finalmente erede conclamato di Agamennone, sullo scheletro della cerva sacrificale che Diana aveva sostituito a Ifigenia in Aulide; dopotutto tutto nasceva dall’immagine davvero formidabile della tempesta di onde rosso sangue e lampi taglienti intorno alla stessa eroina eponima, come una spirale turbinosa che da lei nasce e che la sconvolge, prima di comporsi fra capitelli e are marmoree. Tutto l’orrore della stirpe dei Pelopidi si annida fra pure geometrie e volumi ben definiti, per una donna che ha vissuto quindici anni fra riti sanguinari ma resta in fonda la ragazzina che sogna l’idillio familiare mai esistito.

Le ovvie incertezze riguardanti aperture e capienze hanno consigliato per quest’anno di sospendere la campagna abbinamenti al Teatro Grande, con il risultato di una sala forse non pienissima, ma con la presenza a entrambe le recite della schiera più agguerrita, appassionata e consapevole del loggione bresciano. Non sono solo loro, però, a guidare il successo finale: nell’intervallo si sente mormorare pure “Non conoscevo quest’opera, non sapevo fosse così avvincente!”. Cosa chiedere di più?