Le idi di Marzo

 di Stefano Ceccarelli

L’Opera di Roma apre la stagione 2021/2022 con una première assoluta: il Julius Caesar, musicato appositamente per l’occasione da Giorgio Battistelli, con la regia di Robert Carsen e l’adattamento librettistico, dall’omonima tragediadi Shakespeare, di Ian Burton; l’orchestra dell’Opera di Roma è diretta da Daniele Gatti, in quella che è la sua ultima opera al Costanzi come direttore musicale stabile.

ROMA, 25 novembre 2021 – L’apertura della nuova stagione del Teatro dell’Opera di Roma (2021/2022) è all’insegna dell’opera contemporanea. La scelta della direzione artistica, infatti, è quella di aprire con la première assoluta di un’opera di Giorgio Battistelli, appositamente commissionata per l’occasione. Il soggetto è assai celebre: il Julius Caesar di William Shakespeare, su un libretto appositamente ‘arrangiato’ da Ian Burton per l’occasione. A dirigere l’orchestra è il maestro Daniele Gatti, che si congeda, dopo un triennio di direzione musicale, dal teatro romano; la regia, invece, è affidata a Robert Carsen, che crea uno spettacolo magnifico.

Robert Carsen, dicevo. La regia è probabilmente la punta di diamante di questo spettacolo. Le maestranze di Carsen, coadiuvate da quelle romane, creano una scenografia (Radu Buruzescu) altamente funzionale, che scorre naturalmente da un quadro all’altro, rendendo immediata l’intelligibilità dell’azione. Due sono i perni dell’idea scenica di Carsen: un gigantesco parlamento, che troneggia in verticale coprendo tutto il palco, e il retro di questa stessa struttura, che funge da esterno per le scene di battaglia del II atto. Il lavoro di Carsen sui personaggi è straordinario, dalla cura della gestualità ai movimenti in scena; si pensi solo alla senile spavalderia di Cesare o all’ombrosità di Bruto. L’idea registica di Carsen è quella di trasportare la scena in un imprecisato presente (abiti contemporanei e, qua e là, qualche mascherina), soprattutto per suggerire l’universalità di una vicenda come quella di Cesare: un golpe di una fazione politica contro un dittatore. Carsen si serve per attualizzare la vicenda, dunque, di tutto il campionario di immagini che la cronaca quotidiana offre come spettacolo agli spettatori. Ecco una folla agitata, demagoghi urlanti, leader politici in abiti elegantissimi che lasciano catalizzare attorno a sé tutto l’amore fremente del popolo; dietro le quinte, poi, giochi di potere e omicidi politici. Insomma, una macchina registica perfettamente coerente e funzionante, che ha nelle scene in parlamento (quella del cesaricidio über alles) e nelle cupe atmosfere delle battaglie, tutte giocate su personaggi che entrano ed escono dall’intelaiatura metallica del blocco scenico, i momenti più impressionanti a livello visivo. Indimenticabile, poi, il finale: riappaiono le scalinate del parlamento, gremite di cadaveri sparsi (dopo lo scontro a Filippi) e Ottaviano prende simbolicamente il posto di Cesare ‘congiungendosi’, nei gesti e nell’abbigliamento, col fantasma del parente.

La collaborazione fra Carsen e Battistelli è, in realtà, di lunga data e attesta già due spettacoli portati in scena, di cui uno shakespeariano (Riccardo III). Il linguaggio musicale di Battistelli, impregnato di sperimentalismo puramente novecentesco (mi pare lo si possa accostare a Britten), lascia poco spazio alla cantabilità, all’aria in senso classico. In tal senso, il compositore sceglie un linguaggio terrigno, che gioca con le differenti potenzialità delle voci, assestandole su un recitativo più o meno arioso (sono, certamente, presenti monologhi più sciolti in tal senso) e avvolgendole in un’atmosfera cupissima, fatta di una scrittura orchestrale catramosa, in cui prevalgono dissonanze, suoni scuri come il petrolio. Gatti dirige con energia e solida continuità una partitura lunga e uniforme, volutamente monocorde, a sottolineare – forse – l’impossibilità di redenzione del mondo in cui agiscono i Cesari, i Bruti e i Cassî. Non solo Gatti accompagna con sensibilità le voci, ma riesce a far emergere screziature da una partitura non certo orecchiabile. Per le abitudini di un pubblico come quello romano, certo tendenzialmente conservatore, Julius Caesar costituisce un’attraente novità, che sarà stata apprezzata soprattutto nell’azione scenica e nel complessivo tragico ‘colore’ musicale.

Il cast vocale è all’altezza di una scrittura tutt’altro che semplice, a cominciare dal Cesare di Clive Bayley, che si distingue per potenza vocale, presenza scenica ed eccellente recitazione. Un’invidiabile presenza scenica possiede anche il Bruto di Elliot Madore, attore dalle doti notevoli oltre che cantante dal piglio energico e dalla linea di canto robusta, come dimostra nel logorante monologo durante la notte prima della congiura. Julian Hubbard nel ruolo di Cassio deve affrontare una scrittura che lo porta continuamente, a piena voce, nella parte alta della tessitura; la difficoltà maggiore della parte sta nel conferire la giusta sfumatura ambigua al carattere, risultato a cui Hubbard, senza dubbio, arriva. Dominic Sedgwick canta un Antonio centrato e stentoreo, come si è potuto constatare nella sua performance del celebre monologo durante i funerali di Cesare. Infine, nella lunga lista di comprimari vorrei ricordare la Calpurnia di Ruxandra Donose, dalla generosa vocalità.

Alla fine dell’opera il pubblico applaude calorosamente, salutando la nuova stagione e – cosa da non dimenticare – anche Daniele Gatti, che sceglie un titolo d’impatto per dire addio alla direzione musicale del Teatro dell’Opera di Roma. Mi si conceda di chiudere con una constatazione tutto sommato banale (perché, chiaramente, non c’è bisogno di ribadirlo), cioè l’incredibile abilità drammaturgica di Shakespeare. Sono, infatti, convinto che se mai qualcuno fra il pubblico non abbia apprezzato la scrittura musicale di Battistelli, magari perché poco classica, non sarà potuto che essere, in ogni caso, ammaliato dalla rilettura shakespeariana di un celeberrimo episodio della nostra storia; scrittura shakespeariana, inoltre, valorizzata dalle sapienti mani del librettista Ian Burton.