Sotto le ceneri

di Roberta Pedrotti

Bilancio positivo per Il trovatore che chiude la stagione lirica del Teatro Grande di Brescia. La produzione con la regia di Roberto Catalano si distingue per ricerca estetica e coerenza concettuale, Marigona Qerkezi e Matteo Falcier fanno il loro felice debutto come Leonora e Manrico mettendo a frutto le loro radici belcantiste, Jacopo Brusa compie un interessante lavoro sulla prassi esecutiva. Non rovinano l'accoglienza festosa una resa non sempre efficace dell'orchestra e la prova deludente di Leon Kim come Conte di Luna.

BRESCIA, 12 dicembre 2021 - “Ov'arde quel rogo” ora c'è la cenere. La cenere che nasconde un passato che nel Trovatore è per tutti un'ossessione vincolante: più che agire ogni personaggio non fa che raccontare, ripercorrere, scavare, ricercare in quel che è già avvenuto, in quel che si è vissuto. Coprodotto dall'Ente Concerti Marialisa De Carolis di Sassari e Operalombardia, lo spettacolo a firma di Roberto Catalano (regia), Emanuele Sinisi (scene), Ilaria Ariemme (costumi) e Fiammetta Baldiserri (luci) non indugia sulle consuete simbologie di fiamme e luci lunari, ma immerge la scena in una coltre di cenere, ciò che resto dei roghi della madre e del figlio di Azucena e che cela quel che, man mano, ricordi e racconti ricompongono e portano alla luce, finché non resta uno spazio vuoto, illuminato, la verità spietata in cui la zingara riversa un'ultima volta, questa volta a monito liberatorio, la polvere grigia e granulosa. Ricorda l'immagine della terra nell'asettica scatola bianca pensata dai mai abbastanza compianti Graham Vick e Paul Brown per Guillaume Tell, ma il nobile precedente non intacca l'originalità dello spettacolo, che verte su un'idea chiara e definita, coerente e non banale, in cui un'azione – a conti fatti – tradizionale mantiene chiaro a tutti il filo del racconto.

Il trovatore che ha appena compiuto il suo giro fra i teatri lombardi è un successo, magari passibile di qualche distinguo ma apprezzabile proprio perché non si appoggia su luoghi comuni di facile presa. Si percepisce per esempio nella concertazione di Jacopo Brusa un accurato lavoro in sala con i cantanti, che paiono tutti a proprio agio ma non lasciati a loro stessi in un'accondiscendenza passiva. Piace la cura della prassi esecutiva, evitando le cadenze codificate come stereotipi dalla tradizione, lasciando spazio per variazioni più personali ed efficaci, sempre in stile perché ispirate anche a ciò che Verdi scrisse per Le trouvère parigino. Ciò apre, inoltre, il problema del malvezzo tenorile di unirsi al soprano con un improbabile “Son io dal ciel disceso, o in ciel son io con te”. Il compositore stesso deve aver preso atto della difficoltà per i Manrichi di lasciare l'ultima frase solistica dell'atto al soprano e nel Trouvère, con un testo che con maggior logica inneggia alla riunione degli amanti, la ratifica. Basta l'aver accolto la prassi in un'altra versione ad avvalorarla pure nella stesura italiana? Il dubbio rimane (anche perché i versi di Cammarano così ribaltati di soggetto non soccorrono la causa già difficile dell'intelligenza del trovatore), ma quantomeno l'ingresso di Manrico risulta più disciplinato ed espressivo, evitando l'esibizionismo di certi tenori smaniosi solo di farsi sentire senza cedere il passo alla collega. Purtroppo, poi, la messa in pratica di un lavoro accurato nel concetto e nella cura del canto si scontra con una resa non ottimale dell'orchestra, non sempre pulitissima negli attacchi e nel rendere accenti e rapporti dinamici.

Sul palco, in sintonia con il concertatore, spiccano la Leonora di Marigona Qerkezi e il Manrico di Matteo Falcier. Li avevamo lasciati entrambi, prima della pandemia, nel belcanto più puro: lei, già allieva dell'Accademia Rossiniana di Pesaro si era mossa fra la Regina della notte e Lucia di Lammermoor, lui pure si associava a Mozart, a Donizetti o al Peppe dei Pagliacci. Ora, Querkezi viene a capo delle insidie di Leonora mantenendo in evidenza le sue qualità di musicista e belcantista: il colore luminoso di una fanciulla al primo amore, dominio dei fiati e dell'articolazione sulla parola, di filature, dinamiche, colorature espressive. In più, non ha problemi a farsi sentire e a dare la giusta proiezione alla voce anche nei passi più drammatici, con accenti ben studiati e un dominio della tessitura scevro da forzature. Falcier, parimenti, mette in evidenza la gioventù di Manrico, la natura lirica si confà alla poesia del trovatore ma non mette in secondo piano il guerriero. L'acuto è facile e una “Pira” ben lavorata sulle variazioni e non adagiata sull'effetto di un muscolare “oteco” risulta anche più elettrizzante. Ovvio, in un debutto in questo peso, non tutto sarà ancora al meglio, la nuova strada è ancora in maturazione, ma le premesse sono ottime e meritano di essere lodate. Una menzione speciale, poi, va a Roberto Lorenzi, non solo per aver cantato un ottimo Ferrando, ma pure per averlo fatto subentrando con poche ore di preavviso in sostituzione di un collega indisposto.

Delude invece il Conte di Luna di Leon Kim, che pare affaticato e portato per reazione a calcare la mano su effetti veristici che ne pregiudicano anche la resa musicale e l'intonazione. Alessandra Volpe, viceversa, seppur non all'apice della forma vocale, con qualche opacità di troppo, gestisce con efficacia e professionalità tutti gli oneri di Azucena. Fra i comprimari (Ines di Sabrina Sanza, il vecchio zingaro di Riccardo Dernini, il messo di Davide Capitanio) spicca il Ruiz di Roberto Covatta, ben cantato e agito con personalità. Come l'orchestra dei Pomeriggi musicali, anche il coro Operalombardia preparato da Diego Maccagnola appare un po' rigidino, ma trova un colore claustrale davvero suggestivo nel Miserere. Chissà poi se il ruzzolone di un soldato durante “Squilli echeggi la tromba guerriera” era previsto dalla regia o un incidente: nel primo caso, complimenti alla naturalezza del cascatore, nel secondo, ancor più alla capacità di tutti di integrare la scivolata nell'azione senza intoppi.

Grandi applausi al termine, con un teatro non esaurito ma quasi: bellissimo risultato considerata l'apertura tardiva delle vendite a piena capienza e la sospensione precauzionale per quest'anno degli abbonamenti. Il pubblico bresciano ama l'opera e ne è ricambiato. Appuntamento ora a una stagione 2022 che le voci di corridoio annunciano assai ghiotta.