Non la solita Vedova allegra

di Luca Fialdini

La nuova ideazione scenica di Luca Micheletti registra un caldo successo al Carlo Felice di Genova, con una grande partecipazione del pubblico e applausi a scena aperta.

GENOVA, 31 dicembre 2021 – L’operetta si regge su un ghiaccio instabile, assottigliato da quel bagaglio di tradizioni, consuetudini e reputazione fru-fru che indiscutibilmente l’hanno forgiata. La scelta da parte del Teatro Carlo Felice di chiudere la stagione autunnale 2021 con La vedova allegra, la prima delle operette, si profila – ed è inevitabile – come arma a doppio taglio: di certo è un titolo di cassetta, ma l’ombra dell’allestimento polveroso pieno di gigionerie è veramente dietro l’angolo. Ma il teatro genovese ha un asso nella manica pronto a cambiare le carte in tavola, un asso che ha un nome e un cognome: Luca Micheletti. Micheletti, qui nella doppia veste di regista e di interprete di Danilo Danilowitsch, è una delle intelligenze teatrali più vivaci e interessanti del panorama attuale e per questo allestimento della Vedova si è imbarcato in un’impresa di raro spessore (affine all’Histoire du soldat dello scorso gennaio); si è compiuto un grande lavoro preparatorio producendo una nuova versione del libretto, figlia di due lavori separati sui dialoghi e sul testo dei numeri cantati. I primi sono frutto di una riscrittura avvenuta direttamente sul tessuto drammaturgico del testo originale e conducono a un risultato che guarda, per ammissione dello stesso regista, alle «chiacchiere salottiere di Oscar Wilde» e al «satirico Karl Kraus»; i secondi, invece, appaiono di una nuova traduzione che ha visto gli sforzi congiunti di Micheletti e di Elisa Balbo (interprete di Hanna Glawari). Il risultato è pregevolissimo e regge la prova del palco in modo impeccabile; da sottolineare l’ottima resa delle rime: la banalità di cuore/amore è sempre in agguato, ma Micheletti gestisce tutto con tanta eleganza da non far quasi percepire il sistema rimico. Gustosissimi gli ammiccamenti al mondo dell’opera, soprattutto il «Sempre libero degg’io» del Barone Zeta e, nel settimino, «Donne, donne, eterni déi».

Di grande fascino l’allestimento e l’ideazione scenica, dove la parola d’ordine è «leggerezza»: le meravigliose scene di Leila Fteita – curatrice anche dei costumi – sono tutto uno scintillio incastonato in un continuo ondeggiare di stoffe, una scena viva che respira. L’atmosfera anni ’20 che non rinuncia alle incrostazioni medagliere della Belle Époque e richiama le suggestioni cinematografiche denunciate nelle note di regia, sicuramente non una novità ma proposta in modo convincente. Tra le continue entrate e uscite degli elementi scenografici (caroselli, Rolls-Royce, enormi lampadari di cristallo e mongolfiere) l’effetto wow è garantito ed è bello lasciarsi meravigliare. Da segnalare l’efficacissimo disegno luci di Fabrizio Ballini, che gioca un ruolo importante nella realizzazione della magia, e le coreografie di Fabrizio Angelini. Un importante valore aggiunto dell’ideazione scenica è che Micheletti, nel fornire la propria lettura, propone non solo diversi livelli di lettura ma anche una prospettiva assai più approfondita del consueto… eppure senza mai appesantire un testo che per sua natura non può che essere luminoso, «di una gioiosa e orgogliosa incoerenza, di un’incauta ed esibita allegria». Quello concepito da Micheletti è uno spettacolo dove l’intelligenza fa rima con gusto e raffinatezza, in cui tutto funziona come nel perfetto meccanismo di un orologio, gestione delle masse inclusa.

Ottima la direzione di Asher Fisch – brillante e coloratissima, dove si scelgono tempi comodi ma sempre adeguati – e l’Orchestra del Teatro Carlo Felice risponde con un’esecuzione efficace e travolgente che mette in luce le numerose speziature richieste dalla partitura. Gli interventi del Coro del Teatro Carlo Felice, preparato da Francesco Aliberti sono un elemento di pregio.

Il cast, prima ancora di entrare nel merito del singolo, dimostra di saper fare la cosa più importante in Vedova: funzionare insieme. L’operetta in generale – e questa in particolare – è un mondo che si sostiene sulla resa collettiva, in particolar modo recitativa, e sotto questo profilo l’intero cast merita di essere lodato. Il gruppo degli attori fornisce una prova assolutamente maiuscola, a cominciare da Valter Schiavone, il meraviglioso Maître di Chez Maxim, passando per l’Olga di Maria Grazia Stante e il Kromow di Giuseppe Palasciano, fino allo strepitoso Ciro Masella che è facile amare nei panni di Njegus.

La folta compagine dei comprimari si distingue per l’ottima caratterizzazione, tale da rendere in ogni situazione sempre identificabile ogni personaggio: Federica Sardella (Zozo, la prima delle Grisettes), Alessandro Busi (Pritschitsch), Luigi Maria Barilone (Bogdanowitsch), Kamelia Kader (Sylviane),

Letizia Bertoldi (una vivace e spigliatissima Praskowia), arrivando ai ruoli più carnosi di Claudio Ottino (Visconte de Cascada) e Manuel Pierattelli (Raoul de St. Brioche), entrambi eccellenti.

La Valencienne di Francesca Benitez, al netto di qualche piccola rigidità, ha una buona gestione del ruolo e in produzioni ampie come questa dimostra di avere diverse frecce al proprio arco; Pietro Adaini (Camille de Rossillon) convince più nella recitazione che nel canto: forse è più adatto a ruoli d’opera che d’operetta.

Non in formissima Filippo Morace, eppure il suo Barone Mirko Zeta è un’autentica gemma: divertente nel suo essere perennemente diviso tra il compassato diplomatico e la verve del buffo, il Barone è un personaggio di (e con) cui è bello ridere. Molto equilibrata la recitazione, che non è mai macchiettistica o caricaturale, ma da autentico gentiluomo che sa anche prendersi un po’ in giro con garbata leggerezza.

Come già annunciato, Luca Micheletti non è solo il responsabile di regia e ideazione dell’allestimento, ma è anche parte attiva del cast. A ogni entrata in scena attira istantaneamente l’attenzione su di sé. La recitazione disinvolta e naturale (e vederlo nel ruolo dello sciupafemmine alticcio è fantastico), lo charme innato, la ragguardevole presenza vocale lo rendono un Danilo di primissimo piano. A completare il pregevole cast Elisa Balbo nel ruolo di Hanna Glawari: una vedova non convenzionale, di insolita freschezza, che oscilla tra delicati lirismi e umorismo tagliente; di particolare riuscita la canzone di Vilja, che si è meritata applausi a scena aperta. In questo titolo la Balbo imprime un’impronta caratteristica a un ruolo tanto rodato che sembrava improbabile potervi conferire un sapore nuovo.

In definitiva, l’anno non poteva chiudersi in modo migliore: non solo una produzione come non capita spesso di incontrare, ma soprattutto capace di scaldare il pubblico che partecipa volentieri, fino ad accompagnare con il battere delle mani È scabroso le donne studiar. La Vedova allegra di Genova è uno di quegli spettacoli che rendono il teatro vivo.